7.9.06

Com’è andata a finire
Maurizio Blondet
07/09/2006

Le fiere dello Champagne erano già in declino verso il 1310.
«Il rallentamento degli affari toccò in primo luogo le merci», dice Braudel: «Le operazioni di credito si mantennero più a lungo».
Naturalmente: di solito il cancro vive ancora un poco divorando il corpo che ha già ucciso, è il suo trionfo. (1)
La crescita demografica s’arresta, poi s’inverte.
L’esito dell’affermazione del potere dei guelfi neri si può constatare nel pistoiese: da una densità di 60-65 persone per chilometro quadrato nel 1250, la zona passa a 50 nel 1340.
Certo, completeranno l’opera di spopolamento la guerra dei Cent’anni e, dal 1330, la peste nera - che viene dall’Oriente (2), quasi di sicuro portata dalle navi granarie dalla Crimea, maligno effetto collaterale di quella prima globalizzazione.
Ma colpisce organismi già indeboliti da carestie successive, che sono riapparse in Europa; una popolazione che s’era concentrata nelle città, fuggendo dalle campagne indebitate e torchiate dai tassi predatori.
Ed erano città dove le infrastrutture, trascurate, mettevano in pericolo la sanità pubblica anche in tempi normali.
La ricchissima Firenze, che aveva costruito nel ‘200 i bei ponti sull’Arno, nel ‘300, il secolo del suo splendore, non ne costruisce nemmeno uno nuovo.
Anche questo vediamo oggi: anche oggi la finanza vieta gli investimenti nelle strutture fisiche, perché rendono poco e tardi al capitale prestato.
Allora, la gente subì i rincari dei prezzi alimentari, il declino della produzione di base.
Ma soprattutto, l’economia reale cadde in ginocchio sotto il peso del debito contrattocon i banchieri.


E’ a questo punto che la storiografia autorizzata addita accusatrice Edoardo III d’Inghilterra, colpevole di aver provocato il più vasto crack della storia, ripudiando il debito contratto coi Bardi e coi Peruzzi, e causandone la bancarotta.
Ma a quanto ammontava quel debito regale?
I Bardi hanno iscritto nei loro libri un credito di 180 mila sterling, i Peruzzi 35 mila.
Sommati assieme, come noterà il Villani, equivalevano a 1.350.000 fiorini d’oro di Firenze: il valore di un regno.
Nessuna quantità di balle di lana sarebbe bastata; l’Inghilterra stessa avrebbe dovuto vendersi, per liberarsi dal debito.
Ma quel debito, dice ancora il Villani, comprendeva numerosi approvvigionamenti che il re aveva versato in passato.
Informazione istruttiva, rivelatrice.
Allude a un meccanismo che i Paesi indebitati e poveri d’oggi conoscono troppo bene.
Per quanto sudino a ripagare i ratei, a servire il debito rimborsando interessi e quote del capitale, la cifra a loro carico non cala.
Anzi cresce, fino ad essere impagabile.
Oggi è il Fondo Monetario, pignoratore delle banche creditrici, ad attuare il meccanismo.
Ai Paesi debitori, impone condizioni sempre più draconiane.
Impone riduzioni delle spese pubbliche essenziali: sanità, scuole, infrastrutture (i costi da tagliare). Impone svalutazioni della moneta nazionale, perché acquistino competitività (ossia il prezzo delle loro merci, sul mercato mondiale, si abbassi).
E concede prestiti-ponte, perché gli sventurati possano continuare a servire il debito.


Non un dollaro dei prestiti-ponte entra mai nel Paese cui è stato concesso: passa da un conto all’altro delle banche occidentali.
Ma intanto, da subito, decorrono gli interessi composti aggiuntivi.
Il capitale da restituire aumenta; alla fine, il Paese povero ha pagato cinque, dieci volte il suo debito iniziale, e deve ancora pagarlo.
Le ragioni della banca trionfano sulle ragioni della vita.
Secondo Lane, che ha esaminato i libri dei banchieri fiorentini, qualcosa di simile avvenne anche allora.
Il debito reale inglese ammontava, forse, a 15-20 mila sterling, non al decuplo preteso dai Bardi e dai Peruzzi.
Gli stessi banchieri lo sapevano, se nei loro documenti il grande debitore, il re, è chiamato con malcelato disprezzo «messire Eduardo»; e se uno di quei documenti, del 1339, dice in sostanza: ci andrebbe bene se riuscissimo a recuperare almeno una parte del debito.
Annotazione anch’essa rivelatrice.
Come oggi, il debito di uno Stato è in realtà una modesta colonna nei libri contabili delle banche.
E alle banche non interessa chiudere, liberare il debitore.
Non interessa nemmeno recuperare il capitale (che non è delle banche, ma dei risparmiatori e investitori).
Interessa solo tenere aperto il debito, e continuare a lucrare gli interessi.
All’infinito.
Con ogni mezzo.
Così, nel 1339, i creditori fiorentini imposero all’Inghilterra una svalutazione del 15% della sua moneta sul fiorino: misura da Fondo Monetario, intesa a comprare la lana inglese con un forte sconto.


Davanti alla perdita del 15 % sugli introiti della lana, re Edoardo tentò di battere un proprio fiorino.
Ma i banchieri internazionali boicottarono quella moneta nazionale.
Con le spalle al muro, Edoardo ricorse all’arma più odiata dalla finanza: il potere, anzi il dovere sovrano di affermare la vita della nazione, prima che i diritti della contabilità.
Dal 1342 sospese i pagamenti ai Bardi e ai Peruzzi.
Fu davvero la rovina delle banche?
Converrà ricordare che l’intero debito inglese, come annotato sui libri dei creditori, era ancora di un 35 % inferiore a quello che i banchieri fiorentini reclamavano da Firenze - la loro città, la ricchissima.
E che Firenze non riuscì a pagare.
Non erano patrioti, i banchieri fiorentini; erano guelfi neri, il che significa transnazionali.
Sì, nel 1315 avevano fatto abolire a Firenze (dove abitavano loro) le imposte sui redditi, accrescendole nel contado agricolo, fino a schiacciarlo.
Liberatisi così dalle molestie fiscali, i banchieri-mercanti ebbero ancora più agio di indebitare la loro patria.
Nel 1342, reclamavano da Firenze 1,8 milioni di fiorini d’oro (da Edoardo III, come s’è visto, ne pretendevano 1,3).
L’interesse reale su questa cifra spaventosa correva sul 15%; Firenze dovette pagare in anticipo gli introiti delle gabelle di sei anni, per placare i suoi patrioti del denaro.
Non bastò.
Fu uno straniero, Walter de Brienne, a comportarsi da patriota e uomo di Stato: nel breve periodo in cui tenne la Signoria, Brienne ripudiò il debito cittadino, dichiarando Firenze insolvente, proprio come l’inglese Edoardo.


Fu dunque quello il colpo di grazia?
Edward Hunt, studioso della contabilità fiorentina, sostiene che Bardi e Peruzzi già lavoravano in perdita dal 1330, e gli Asti di Siena, coi Franzezi e gli Scali, già dal 1320, «a causa della loro politica di credito all’agricoltura e al commercio»: era crollata la produzione dei beni di prima necessità, su cui i creditori avevano il monopolio.
«Le banche riuscirono a sopravvivere oltre il 1340 unicamente perché la notizia della loro condizione non era di dominio pubblico» (annotazione che può essere ripetuta per il sistema finanziario d’oggi).
Il denaro sterile diventava veleno mortale.
L’esosità degli interessi già uccideva il gregge disposto, docile, a farsi tosare all’infinito del prodotto del suo lavoro, l’unica vera ricchezza nel mondo reale.
Ricordiamo: i fiorentini cavavano il 15 e fino al 20 % da un’economia che produceva il 4.
La causa perenne delle crisi economiche: l’eccessiva retribuzione del capitale.
I veneziani prelevavano sull’economia, come abbiamo visto, il 40%.
E probabilmente furono loro, non i re e i grandi insolventi, ad innescare il collasso finanziario.
Le banche fiorentine operavano principalmente con le celebri lettere di cambio, su cui facevano pagare una commissione: così, prelevavano una tassa ulteriore su ogni scambio, pari almeno al 14 %.
Questo tributo divenne insostenibile anche a causa delle fluttuazioni prodotte dalle manipolazioni sui due metalli operate nella Serenissima.
Di fatto, Venezia aveva imposto all’Europa la moneta d’oro, accaparrando l’argento e mandandolo in Oriente, dove era richiesto e spuntava un prezzo più alto.
Ma la scomparsa dell’argento dall’Europa, se fornì ai fiorentini (col loro fiorino d’oro) più vaste possibilità speculative, fu una delle cause del deperimento dell’economia fìsica: le compravendite comuni si facevano in argento monetato, di più modesto valore.
S’instaurò all’inizio una sorta di deflazione artificiale, per rarità del circolante.


L’attività produttiva languì per mancanza dei mezzi di pagamento; il calo della produzione fece rincarare i prezzi, rendendo rare le merci.
Ne seguì un’inflazione altrettanto artificiale.
A cominciare dal 1325 e fino al 1345, si produce l’effetto temuto: l’abbondanza di oro, poco richiesto in un’economia calante, fa crollare il prezzo del metallo giallo.
Il rapporto passa da 15 contro 1 a 9 a 1: ormai, per comprare un lingotto d'oro, ne bastano 9 d’argento di pari peso, non più 15.
E’ l’argento a rincarare: e Venezia, che ne ha scorte immense, s’arricchisce ulteriormente fornendolo al mercato.
I banchieri fiorentini invece hanno tutti i loro investimenti in oro: il prezzo del metallo in caduta libera è la loro trappola.
Dice Lane: «la caduta del corso dell’oro, a cui i veneziani avevano risolutamente contribuito con le ragguardevoli esportazioni d’argento contro oro da cui traevano profitti, fu nefasta ai fiorentini. Essi erano i dirigenti della finanza internazionale [...] tuttavia non furono in grado, al contrario dei veneziani, di avvantaggiarsi dei cambiamenti che ebbero luogo fra il 1325 e il 1345».
La Serenissima continuò, nel mezzo dei fallimenti bancari che si susseguivano, ad incassare superprofitti.


Fino al 1347: quando la peste nera bussò alle porte d’Europa, entrando dalla Sicilia.
La popolazione europea calò in alcuni decenni da 90 a 60 milioni di abitanti.
Ma la peste non fu un disastro naturale.
Quando si dileguò, nel 1360, il cronista Matteo Villani confessò di aspettarsi una ripresa, essendo i prodotti abbondanti per i pochi sopravvissuti: un’idea da banchiere.
E’ anche oggi una scusa sempre pronta della finanza, accusare la sovrappopolazione dei disastri che provoca.
Invece, con amaro stupore, Villani constatava nuove carestie, caotici aumenti dei prezzi per tutto il decennio; seguiti da deflazione e crollo dei redditi.
Non era dunque la peste a rovinare l’economia.
Era la conseguenza ultima del crack finanziario.
L’esplosione della bolla speculativa ancora destabilizzava la vita d’Europa, mezzo secolo dopo. (3)

Maurizio Blondet


Note
1)
Andò così anche nel 1929: Tra il 1921 e il 1929 l’attività industriale in USA aumentò solo del 30%, ma la Borsa americana del 600%. Alla fine, quando i trasporti di merci in USA erano già ridotti quasi a zero (segno di paralisi del commercio) i beni durevoli restavano invenduti, la Borsa di Wall Street passava ancora di rialzo in rialzo. Tutti continuavano a comprare (spesso a credito) azioni, ossia titoli di carta dietro cui non c'era più nulla.
2) L’Europa orientale viene in quegli anni sommersa dall'invasione mongola. E pare siano state le immense mandrie di cavalli, in cui i mongoli facevano consistere la ricchezza, a smuovere verso Occidente il ratto nero, veicolo del male. Predatori, e perciò liberisti, i mongoli furono alleati di Venezia nelle operazioni finanziarie; l’estesissima rete diplomatica della Serenissima forniva informazioni strategiche ai conquistatori, in cambio di attenzioni come la distruzione di città portuali concorrenti . Dove dominavano, i mongoli sostituirono le monete d’oro con l’argento (di Venezia) e anzi, con monete di carta, a corso forzoso: strepitosa invenzione della creatività finanziaria, che avrebbe avuto un grande futuro. Risultato: la popolazione della Cina passò in 25 anni da 155 a 85 milioni. Indifferenti alla produzione, i mongoli erano interessati allo scambio: imposero nella vastissima area del loro dominio un assoluto mercato libero e unitario. Il Milione di Marco Polo va forse letto come una glorificazione dell’alleanza d'affari fra la Serenissima e Kublai Khan, l’imperatore mongolo che occupava la Cina. La favolosa umanità di Kublai e la prosperità del suo regno, esaltata dal Polo (consigliere speciale alla corte del Gran Khan), è smentita dai resoconti dei missionari, ben consci delle devastazioni mongole.
3) Sono debitore delle idee di questo capitolo a Paul Gallagher, e al suo studio («Comme Venise orchestra le plus grand désastre financier de l’histoire», sul sito solidariteetprogress.online.fr).
Paul Gallagher, membro del gruppo LaRouche, ha scritto il suo saggio mentre era in carcere in USA: sotto la falsa accusa di evasione fiscale, in realtà come prigioniero politico.
Da quel che avete letto, capite perché.

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