11.6.07

IL PRINCIPIO FONDANTE DELL’ EURO: IL FORDISMO
(di Giorgio Monteforti)


LA POLONIA E' PRONTA PER L' EURO?

VARSAVIA - “Ribadisco la mia opinione che la Polonia debba entrare nell’ euro solo quando sara’ conveniente per la nazione” ha dichiarato il 7 Febbraio scorso Slawomir Skrzypek, presidente della Banca Nazionale, dopo l’ ultimo incontro dell’ RPP cioe’ la commissione nazionale per le politiche monetarie.

Skrzypek lavorava come portaborse dei gemelli Kaczynski prima di essere nominato governatore della Banca di Polonia il 10 gennaio 2007. Allo scadere del mandato del precedente consiglio direttivo (dicembre 2006) i Kaczynski non sono riusciti a convincere nessuno in tutta la Polonia ad accettare l’incarico (si sono tutti rifiutati di lavorare con e per i gemelli) e allora hanno dovuto ordinare al fedelissimo Skrzypek di sostituire il governatore uscente e mostro sacro dell’ economia europea Leszek Balcerowicz (colui che ha ideato le riforme economiche di molti dei paesi ex sovietici). Non avrebbero potuto fare altrimenti visto che solo lui, tra i membri dello staff Kaczynski, era l’ unico ad avere fatto un qualche corso di economia.

E infatti Skrzypek, in tema euro, non ha fatto altro che confermare l’ opinione non sua ma del suo burattinaio, il premier Jaroslaw Kaczynski, che lo scorso novembre alla domanda sul perche’ la Polonia fosse l’unica tra i nuovi membri UE a non aver stabilito una data per l’ ingresso nell’ Eurozona rispose: "E’ chiaro che dobbiamo entrare nell’ euro ma non abbiamo stabilito una data precisa perche’ lo faremo quando il livello di sviluppo economico della Polonia e quello dei paesi dell’ area euro sara’ piu’ vicino che adesso”.

Comunque sia nel 2010, stando al premier (che per quella data crede di essere ancora al potere), si terra’ un referendum in cui ai cittadini polacchi verra’ chiesto se vorranno o meno adottare l’ euro. Democratico, se non fosse che nessuno, quel giorno, chiedera’ loro se sanno cos’e’ l’ euro e se sanno se il loro paese e’ pronto o no alla nuova moneta e a tutto quello che comporta.

Un deja’ vu: volete Gesu’ o Barabba? La scelta sara’ pilotata, il governatore se ne lavera’ le mani e il Sinedrio avra’ ottenuto cio’ che voleva.

CHI HA CREATO L’ EURO

Un giorno di molti anni fa alla stazione di Genova incontrai un giovane laureato pugliese che era salito fin lassu’ due giorni prima per partecipare alla selezione del personale di una nota societa’ marittima del capoluogo ligure. Aveva speso un botto tra treno, pensione e trattorie senza considerare la fatica che doveva essersi fatto a portarsi dietro, oltre al bagaglio, il vestito buono della laurea accuratamente piegato e riposto in un porta-abiti pesantissimo. Gli chiesi come gli fosse andata e lui un po’ triste mi rispose che lo avevano scartato. Gli domandai il perche’ e lui mi disse che il suo inglese non era sufficientemente buono concludendo tra il serio e l’ offeso “questa poi. Perche’ mai dovrei avere un inglese fluente?”.

Pensa te. Dopo tutti gli anni passati sui banchi di liceo e nelle aule universitarie non gli era mai passata per l’ anticamera del cervello l’ idea che se si vuole riuscire ad affermarsi come individuo ed avere qualche chance di uscire dalla mediocrita’ intellettuale (che poi si riflette nel tipo di lavoro che si fa e nella vita sociale che si conduce) le lingue straniere e l’ inglese in particolare sono assolutamente indispensabili. Non fosse altro che per tutti i giornali, i libri e i video in piu’ che si possono leggere, guardare, ascoltare e ognuno dei quali rappresenta un tassello fondamentale nella maturazione intellettiva e culturale di una persona.

La differenza fra le universita’ di elite (come la Bocconi di Milano, la Normale di Pisa, la Luiss di Roma) e tutte le altre sta proprio qui. Non tanto in professori migliori e maggiori disponibilita’ di strutture e risorse quanto nelle competenze personali che parallelamente agli studi obbligano ad accrescere. Come la perfetta padronanza della lingua inglese ma non solo. In queste universita’ ad esempio il voto di un esame non tiene conto esclusivamente della singola performance del candidato (come in una normale universita’) ma dipende anche dalla qualita’ totale delle performance degli studenti dato che i voti vengono tassativamente assegnati secondo un andamento gaussiano dove pochi prendono 30 e pochi 18 e tutti gli altri stanno in una forchetta compresa tra il 22 e il 26.

In altre parole nelle grandes ecoles per avere un buon voto non serve solo farsi il mazzo a studiare ma bisogna anche strategicamente scegliere l’ appello giusto in modo da evitare il piu’ possibile i secchioni e avere dunque piu’ probabilita’ di ricevere un voto alto.

Quindi se in una normale universita’ l’esame e’ il momento in cui lo studente deve dimostrare la sua accresciuta competenza in uno specifico soggetto e dunque far capire di essere diventato un uomo migliore e piu’ completo, in una universita’ d’elite l’esame per uno studente e’ un banco di prova per testare la sua ambizione, la sua attitudine al successo, l’efficacia della sua predisposizione alla prevaricazione degli altri perche’ nel mondo in cui saranno chiamati a operare solo i piu’ spietati sopravvivono.

Mentre i bocconiani dunque ricordano come un incubo ogni esame superato io con nostalgia ripenso a quella bolgia di capelloni, scansafatiche, furbi, mariuoli, drogati, pazzoidi, visionari e allucinati con i quali ho dato i miei di esami e che al voto gaussiano preferivano decisamente il voto politico: basso e uguale per tutti purche’ si studiasse poco e ci fosse tutto il tempo per andare a fare surf.

Non e’ un caso che chi studia “in Bocconi” (come dicono loro) riceva importanti offerte di lavoro gia’ al terzo anno di universita’ senza neppure essere a meta’ degli studi mentre gli altri faticano a rimediare un contrattino anche dopo anni dalla laurea. Perche’ l’ istruzione universitaria tradizionale ha come fine ultimo l’ elevazione di individui che per profitto e per filosofia tendano a migliorare la societa’ (e quindi inadatti al business) mentre le top universities puntano alla creazione di individui che per profitto e filosofia tendano a sottomettere la societa’ (e allora perfetti per far quattrini). La differenza tra i due metodi educativi e’ come quella che passa tra un cavallo a cui si da’ uno zuccherino per farlo saltare piu’ in alto e un cane da combattimento a cui si danno un sacco di bastonate per renderlo piu’ aggressivo. Per di piu’ se l’Universita’ di Firenze, la Columbia University di New York e l’Universita’ di Varsavia per raggiungere il loro scopo educativo devono differenziare l’insegnamento perche’ inserite in contesti sociali e culturali diversi, la Bocconi italiana, l’Harward americana, la SGH polacca insegnano tutte allo stesso modo le stesse identiche cose. E l’ unione, non il numero, fa la forza. Coloro che hanno dato vita al progetto euro (dagli ideatori, ai progettisti, ai realizzatori) sono tutti ex studenti di quest’ ultime. Forse non si sono mai conosciuti tra loro ma pensano tutti alla stessa maniera e sono giunti tutti alle stesse conclusioni.

PERCHE’ L’ EURO

Nel 1789 il popolo francese insorse contro la sua classe dirigente, ne arresto’ i capi cioe’ il re e la regina e i maggiori esponenti cioe’ i nobili, li accuso’, li processo’, li condanno’ e taglio’ loro la testa.

Di per se’ la cosa non impressiona piu’ di tanto. Gli Iraqueni, pardon, gli Americani con Saddam e i suoi hanno fatto piu’ o meno lo stesso. La differenza tra ieri e oggi sta pero’ nel fatto che mentre ai nostri tempi i governanti vanno e vengono o con le buone (le elezioni o le proteste) o con le cattive (missili o carri armati), alla fine del 700 si credeva seriamente (non lo si faceva credere: si credeva e basta) che il re e la nobilta’ detenessero il potere per volonta’ dello stesso Dio e quindi rovesciarli e metterli a morte (come nel caso di Luigi XVI e Maria Antonietta) equivaleva a commettere un sacrilegio. I Francesi a commettere sacrilegi, togliere a pochi per dare a molti, non si sarebbero fermati qui. Nel 2000 entra in vigore in Francia la legge sulle 35 ore che stabilisce che ogni lavoratore dipendente puo’ al massimo lavorare 35 ore settimanali e non un minuto di piu’ perche’ non solo e’ ridotto l’ orario di lavoro ma anche gli straordinari sono aboliti. Da molto tempo una larga parte dei cittadini francesi chiedeva salari ridotti ma piu’ persone occupate e la possibilita’ per tutti di godere di 8 settimane di ferie all’ anno e 22 giorni liberi infrasettimanali. Stephane Marchand, giornalista di Le Figaro, intervistato dalla CBS sull’ argomento ha spiegato che in Francia il profitto viene dopo, molto dopo, il vivere bene e che in fondo “la grande differenza la fanno i soldi o meglio il posto che nella vita si da’ ai soldi”. Certo Marchand agli Americani si e’ dimenticato di precisare che le 35 ore valgono solo per gli impiegati statali ma questo non cambia il senso delle sue parole. Perche’ almeno in Francia si ha la possibilita’ di scegliere tra guadagnare meno e lavorare meno (nel pubblico) o guadagnare tanto e lavorare tanto (nel privato). I Francesi dal 2000 ad oggi hanno dimostrato in concreto che dare la possibilita’ a chi la vuole di ridurre il proprio tenore di vita a fronte di maggiore tempo libero non intacca la produttivita’ e l’ economia del paese (il PIL francese cresce costantemente a una media del 2% l’ anno) ma migliora molto la qualita’ della vita visto che il tasso di poverta’ (i poveri sul totale della popolazione) e’ al 9% contro il 15% dell’ Inghilterra e il 18% degli USA. Allora perche’ mai politici, deputati, ministri, funzionari, manager e capitani d’ industria francesi (che hanno studiato tutti nelle stesse scuole) a forza cercano di abolirla? E come mai in tutti gli altri paesi europei (dove la classe dirigente ha studiato nello stesso tipo di scuole dei colleghi francesi) e’ addirittura in atto una politica volta a precarizzare il lavoro rendendolo ancora piu’ flessibile cioe’ insicuro, meno remunerato e allo stesso tempo piu’ intensivo? Elementare. Perche’ dare piu’ tempo libero alla gente significa metterla in una condizione di minore stress e quindi in posizione privilegiata nell’ informarsi, nell’ incontrarsi, nel discutere, nel capire e se nel caso ribellarsi. Dell’aumentata sensibilita’ della popolazione francese dovuta al riposo e al maggior tempo dedicato all’ informazione e al dibattito ne ha fatte le spese nel 2005 il ministro delle finanze Herve Gaymard che e’ stato costretto a dimettersi quando si e’ venuti a sapere che l’ affitto del suo appartamento di Parigi veniva a costare ai contribuenti 14000 euro al mese o il primo ministro Raffarin e con lui tutti gli imprenditori e manager francesi quando nella primavera del 2006 si sono visti sollevare un’ intera nazione al tentativo di introdurre anche in Francia una “legge Biagi” (gia’ da tempo in vigore in quasi tutti i paesi dell’ UE). Per Gaymard e Raffarin fine della carriera e ritiro in disgrazia, per gli uomini d’affari guadagni ridotti perche’ non autorizzati a ridurre le spese a danno dei loro dipendenti.

E’ ovvio che i laureati delle scuole d’elite in Francia come in tutti gli altri paesi europei (episodi simili a quelli francesi sono accaduti in tutta l’Unione vedi l’Ungheria) abbiano avuto un sussulto nel realizzare che la gente comune puo’ spingerli a farli desistere dai loro progetti e addirittura a costringerli al ritiro o al fallimento.

In fondo non e’ tutta colpa loro. Gli e’ stato insegnato che potere e profitto sono cose da galantuomini. Puo’ succedere di perderli ma solo per mano di altri gentiluomini e solo dopo un regolare duello combattuto secondo le regole della politica (per i politici) o secondo quelle del business (per i manager). Non certo perche’ ci si mette di mezzo il popolino. Perche’ tutto ritorni all’ ancien regime con i signori che comandano e i servi che obbediscono, oggi in tempi di democrazia dove condannare al rogo per stregoneria o al taglio della testa per lesa maesta’ e’ proibito dalla legge, l’unica soluzione praticabile e’ quella di tenere la gente al verde e costringerla a lavorare il piu’ possibile in modo che non abbia la serenita’, il tempo, la forza e la motivazione di emanciparsi. L’Euro avrebbe dovuto servire proprio a questo. Non confondiamo le date. L’ idea dell’ Euro viene fuori molto prima delle 35 ore e cioe’ nel 1988 quando la Commissione Europea affida a un comitato presieduto da Jacques Delors (che poi era anche presidente della commissione) lo studio sulla fattibilita’ di una moneta unica. Uno strumento necessario a traghettare il continente attraverso l’ imminente cambiamento degli equilibri sociali e politici che l’ annunciato crollo dei regimi comunisti avrebbe determinato (come la borghesizzazione del proletariato e la proletarizzazione della borghesia che avrebbe saldato due forze dirompenti da sempre ideologicamente separate e spaventate l’ una dall’ altra) e soprattutto a far si’ che la classe dirigente non solo rimanesse in sella (pur sapendo che qualcuno avrebbe dovuto essere sacrificato) ma ci guadagnasse anche qualcosina. Le 35 ore in Francia, Mani Pulite in Italia fanno parte della serie di scosse di assestamento che tanto spaventavano Delors e compagni e che, come prevedevano, hanno avuto effetti sgradevoli (dal loro punto di vista). Ma niente paura. L’ Euro, come loro lo avevano concepito, avrebbe riportato tutto alla normalita’. Inutile ricordare dove abbia studiato praticamente la quasi totalita’ dei membri di quel comitato.

IL PRINCIPIO FONDANTE DELL’ EURO: IL FORDISMO

L’ America come noi oggi la conosciamo (Bush, McDonald e pena di morte) non e’ sempre stata cosi’. Per tutti i primi 100 anni della sua storia e’ stata un modello di progresso democratico e sociale. Per dirne qualcuna negli USA dell’ 800 quasi tutta la popolazione era alfabetizzata (nel 1860 gli analfabeti in America erano il 4% in Italia il 78%), il servizio sanitario capillare e gratuito (in Italia solo dagli anni del boom economico), il suffragio garantito anche alle donne in alcuni stati come il Colorado, l’ Utah e l‘ Idaho (diventera’ universale solo nel 1919 con il XIX emendamento in compenso in Italia le donne votarono per la prima volta nel 1946). Gli Americani erano inoltre un popolo parsimonioso e risparmiatore che limitava i consumi all’ indispensabile (persino a Boston o a New York) e manteneva un basso tenore di vita. Non lo dico io ma tutti i viaggiatori europei che a piu’ riprese visitarono gli Stati Uniti come il francese Alexis de Tocqueville (De la Démocratie en Amérique, 1835-1840), l’ inglese Charles Dickens (American Notes, 1842), l’ italiano Francesco Varvaro Pojero (Una corsa nel Nuovo Mondo, 1878).

Fu Henry Ford, proprietario della Ford Motor Company, che nel 1914 cambio’ le carte in tavola. Da tempo l’ America era in subbuglio per il diffondersi del socialismo laico (di ispirazione marxista) e di quello religioso (di ispirazione cristiana) che chiedevano con sempre piu’ insistenza ai grandi industriali come Rockfeller condizioni di lavoro piu’ umane e paghe piu’ alte. I frequenti scioperi e occupazioni danneggiavano le industrie e sfinivano gli scioperanti e non era insolito che durante le repressioni poliziesche ci scappasse il morto o, piu’ spesso, i morti. Il romanzo verita’ “The Jungle” (1906) del giornalista Upton Sinclair sulle mostruosita’ del lavoro nelle industrie conserviere di Chicago scosse profondamente l’ opinione pubblica americana e ebbe pesanti ripercussioni politiche. L’ America sembrava sull’ orlo di una seconda guerra civile. Ford, che prima di essere un industriale era soprattutto un inventore quindi un creativo, penso’ che il modo migliore per evitare guerre e scontri sociali fosse quello di far assaggiare ai poveri la droga dei ricchi: lo spendere e il possedere. Infatti chi non ha nulla di suo da perdere puo’ arrivare a fare di tutto, chi invece qualcosa di suo da perdere ce l’ ha ci pensa due volte prima di fare certe cose.

Cosi’ raddoppio’ il salario degli operai che da 2.34 passo’ a 5 dollari l’ora, porto’ l’ orario di lavoro a 8 ore giornaliere anziche’ 9, e la settimana lavorativa da 6 a 5 giorni. Con l’ invenzione della catena di montaggio (sempre di Ford) che permetteva di risparmiare enormemente sui costi di produzione riusci’ a produrre la famosa Ford T a un prezzo abbordabile anche per i suoi dipendenti che finalmente avevano i soldi per comprarsela e il tempo per godersela. Ma non troppo. In pochi anni tutte le imprese americane raddoppiarono gli stipendi dei loro dipendenti e allo stesso tempo studiarono il modo di abbassare al massimo i costi dei loro prodotti e servizi. E fu un escalation di consumi (e di guadagni). Poi nel 1950 Ralph Schneider and Frank McNamara lanciarono sul mercato la Diners Club prima carta di credito in senso moderno, seguita poco dopo dall’ American Express, che permetteva un miracolo mai visto prima: spendere oggi quello che si guadagnera’ tra un mese. La corsa ai consumi ebbe un’ impennata senza precedenti tanto che a numerosi osservatori sembro’ non potersi arrestare mai. Il fordismo, come Ford aveva previsto, non solo fu da subito un successo ma resse fino a tutti gli anni ’50 senza praticamente trovare seri ostacoli o decisi criticismi. Questo perche’ il fenomeno psicologico legato al consumismo e’ noto. La psicologa Marta Richin dell’ Universita’ del Missouri dice che il materialismo crea nei soggetti irrealistiche aspettative su cio’ che un bene possa fare per loro in termini di relazioni sociali e felicita’. Fa si’ che le persone pensino che possedere un certo oggetto possa cambiare la loro vita in temini di immagine e di status. Almeno fino al momento dell’ acquisto quando cioe’ si accorgono che tutto e’ rimasto come prima e allora passano subito a desiderare qualcos’ altro di piu’ grande e di piu’ costoso in una spirale senza fine. Come calmiere sociale la formula di Ford basata sulla dipendenza da possesso che spinge a lavorare-comprare, lavorare di piu’-comprare di piu’, lavorare di piu’-indebitarsi-comprare ancora di piu’ aumentando l’ individualismo e l’ egoismo delle persone a scapito della socializzazione e della solidarieta’ e dunque dei movimenti per la giustizia sociale (che mettevano a rischio l’ ordine politico e il profitto economico) funziono’ alla perfezione. Gli Americani accecati dallo shopping che li costringeva a lavorare volontariamente sempre piu’ ore (per pagare debiti e crediti) accettarono di buon grado e senza alcuna protesta la prima guerra mondiale, la crisi del ’29 (dovuta a una battaglia tra poteri forti), la seconda guerra mondiale, i blocchi contrapposti e la minaccia nucleare. Purche’ due volte l’ anno ci fossero i saldi ai grandi magazzini.

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