22.12.06

L’attacco all’Iran, dopotutto, si farà
Maurizio Blondet
18/12/2006
Il membro del Likud al parlamento israeliano Juval Steinitz

«Sono convinto che gli USA attaccheranno l'Iran per distruggere la sua capacità nucleare, essendo fallita la diplomazia. Salveranno il mondo. Bush e Blair hanno questa missione storica».
Sono parole pronunciate da Juval Steinitz, membro del Likud al parlamento israeliano.
Parole rivelatrici per molti versi: a proposito delle elezioni anticipate che Abbas vuol indire a Gaza, per detronizzare Hamas e per cui rischia la guerra civile nel suo piccolo popolo, Steinitz ha chiarito: «Nessuna elezione cambierà la natura dell'Autorità Palestinese come entità terrorista».
Dunque Giuda non tratterà con Abbas, come non ha trattato con Hamas. (1)
Specie sul primo punto Steinitz è ben informato.
A Washington, seppellito il rapporto Baker (che invita a trattare con l'Iran per aggiustare in qualche modo il disastro american in Iraq), avanza a passi rapidi la soluzione della «fuga in avanti»: per salvare l'Iraq, estendere il conflitto all'Iran.
Bush e Cheney hanno, per questo progetto, l'appoggio dei democratici, opportunamente ammaestrati dalla lobby.
«Israele è ossessionato dall'Iran», scrive Arnaud De Borchgrave, già direttore ed ora editorialista del Washington Times: «Un'acuta anche se comprensibile paranoia ha rimpiazzato il discorso razionale. Il Libano è stato un disastro per Israele e l'Iraq un disastro per l'America. Qualche indovino politico a Washington sta profetando che il presidente Bush si prepara da contorsionista a fare la più straordinaria svolta ad U della sua vita politica. Non ci contate. I francesi hanno una frase per dipingere quello che ci attende: 'la fuite en avant'. All'ingrosso, significa sfuggire da un problema cacciandosi in un altro». (2)
Da Bruxelles a Berlino, da Teheran a Damasco, non si parla d'altro che dell'America come il gigante dai piedi d'argilla, come tigre di carta, dice De Bortchgrave. «Questo è precisamente il motivo per cui il presidente Bush non accetta il rapporto Baker-Hamilton. Il presidente Bush vede se stesso come la figura di Winston Churchill, che solitario tuonava negli anni '30 contro i colleghi sonnolenti che facevano concessioni ad Hitler».
Per intanto, con il forte appoggio della maggioranza democratica, Bush manderà altri 30 mila uomini in Iraq.
Sordo ai pochi che chiamano questo «la ricetta per il disastro», che può portare alla «dissolution of the American empire».
Sicuramente 30 mila soldati USA in più non modificheranno il caos iracheno, anzi affonderanno ancor più il prestigio americano nel fango.


Ma questo conferma, semplicemente, che la classe (israelita o neocon) al potere oggi a Washington non persegue il prestigio americano, né tantomeno ha in mente la stabilizzazione di un Iraq democratico e vivibile.
Ciò che perseguono - sull'esempio israeliano - è il caos in sè, e la sua estensione sanguinosa all'intero mondo islamico.
Ciò che tutti credono una disfatta, è ciò precisamente che loro definiscono il successo.
Inutilmente il generale Peter Chiarelli, che sta per prendere il comando delle operazioni in Iraq, ha espresso ad altissima voce che la mera guerra e il massacro di guerriglieri veri o presunti non porta ad alcuna vittoria.
«Se non si tenta di reintegrarli nella società», in una società che dia lavoro e sviluppo. (3)
Israele sa che, con lavoro e sviluppo e gli introiti petroliferi, anche un Iraq democratico diverrebbe presto troppo potente per i suoi gusti; dunque, sia il caos eterno.
Invano il generale John Abizaid, comandante delle forze USA in Medio Oriente, si oppone ad un rinforzo delle truppe, e consiglia di spendere invece più soldi e più efficienza nello sforzo di ricostruzione economica e civile nel Paese occupato, per sottrarre i giovani iracheni all'unica scelta oggi loro possibile, imbracciare il kalashnikov.
La Casa Bianca «sceglie» i suoi consiglieri, come ieri scelse l'intelligence falsa che dava le scuse per attaccare Saddam.
Il generale a riposo John Keane ha già allestito per Bush il piano di aumento delle truppe occupanti: un piano che ha stilato insieme all'ebreo Frederick Kagan, l'analista militare dell'American Enterprise - le centrale neocon che progettò l'invasione dell'Iraq e la definì «una passeggiata».
Il generale Chuck Wald (ebreo) e il generale Chuck Vollmer (idem) hanno allestito un rapporto gradito alla Casa Bianca, in cui si legge: «La prossima fase dell'operazione Iraqi Freedom potrebbe comprendere una importante invasione dell'Iran e delle forze pro-iraniane contro le forze occidentali nella regione e contro Israele, e una conseguente crisi energetica globale. Anziché pianificare il ritiro dall'Iraq, meglio pianificare il riposizionamento in quest'area strategicamente importante. Può essere necessario ritirarsi dall'Iraq; ma il ritiro dalla regione precipiterebbe una crisi globale con uno sbilanciamento delle forze (balance of power) a favore dell'asse Iran-Russia-Cina, dannoso per l'indipendenza energetica dell'Occidente». (4)


Tanto per far capire quanto si estenderà la fuga in avanti: Russia e Cina vengono comprese inopinatamente nell'asse del male a fianco dell'Iran.
Questi sono i prossimi nemici additati ad una superpotenza che ha già il fiato grosso e sta perdendo in Iraq e in Afghanistan.
E' precisamente la paranoia israeliana: se Hezbollah ci ha sconfitto, è perché lo ha aiutato l'Iran, dunque attacchiamo l'Iran.
Se in Iraq siamo nel pantano, è colpa della Cina e della Russia…
E' l'indicazione di una pseudo-strategia, come nota Dedefensa, che nasce da menti «segnate dal disordine» psichico a Washington, e «rinforzate in modo ossessivo da Tel Aviv, dove si vive l'atmosfera della disfatta e insieme l'ossessione della risposta». (5)
Il senso di aver perduto, a Washington come in Israele, porta «incontrollabilmente» a sognare una rivincita totale, onnipotente - di quel delirio di onnipotenza proprio delle menti narcististiche.
Il para-sillogismo che li domina è: noi siamo invincibili.
Se non vinciamo, è solo perché non abbiamo usato tutta la forza di cui disponiamo; per vincere, occorre più guerra e più violenza.
Al fondo, sta la tentazione atomica.
«L'atto dell'attacco all'Iran può apparire ogni giorno di più come il deus ex machina che annullerebbe l'Iran, il diabolus ex machina a cui si attribuisce il blocco della situazione in Iraq… il nemico finale la cui distruzione [è vissuta] come la catarsi sognata».
Anche De Borchgrave avvicina lo stato d'animo dominante a Washington e a Tel Aviv a quello del giocatore d'azzardo che, perso tutto alla roulette, si fa prestare le somme per raddoppiare la posta, sperando di rifarsi.
La metafora è più stringente di quanto appaia.
Basti pensare che l'America sta facendo sostanzialmente la guerra con i soldi del creditore, la Cina, e che i suoi soldati marciano con scarponi Made in China.


La potenza industriale americana, che vinse nella seconda guerra mondiale, è sparita nelle delocalizzazioni; quello che sogna la grande vittoria mondiale è un Paese pesantemente de-industrializzato, che importa tutto, incapace di reggere lo sforzo e il sacrificio di un lungo e vasto conflitto.
Basti considerare che i rifornimenti degli americani a Baghad arrivano da Bassora, lungo una strada controllata già oggi dai 60 mila guerriglieri sciiti di Muktada al-Sadra.
Un percorso che in caso di attacco all'Iran diverrebbe - dice qualche generale americano - «una galleria di tiro a segno lunga 800 chilometri».
Ma ciò che è un incubo per i generali sul terreno, è un sogno possibile per i deliranti di Washington e Tel Aviv.
Tanto peggio tanto meglio.
L'attacco all'Iran, forse dopotutto, si farà.

Maurizio Blondet


Note
1) Anat Bereshkobsky, «Steinitz estimates: US will attack Iran», Ynet.news, 16 dicembre 2006.
2) Arnaud De Borchgrave, «Watching America», UPI, 12 dicembre 2006.
3) John Burns, «US general says jobs and services may curb Iraq violence», New York Times, 13 dicembre 2006.
4) Justin Raimondo, «The urge to surge», Antiwar.com, 15 dicembre 2006.
5) «La thèse de la fuite en avant», Dedefensa, 14 dicembre 2006.




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7.12.06

Usa: comincia la discesa
Maurizio Blondet
09/11/2006

STATI UNITI - «Lavoriamo insieme per l’Iraq», ha subito detto Nancy Pelosi, nuova speaker democratica alla Camera bassa, rivolta ai repubblicani.
D’altra parte, ha vinto Joe Lieberman in Connecticut, cacciato dagli elettori democratici, ma imposto dalla nota lobby.
E Bush resta dov’è fino al 2008; dunque non cambia niente.
Nancy Pelosi ha sempre sostenuto le guerre e le posizioni più dure dei neocon.
Lieberman, ebreo super-falco, diverrà ministro della Difesa al posto di Rumsfeld.
Le guerre per Israele continueranno.
Solo «dopo» questo voto gli americani si renderanno conto che, per Israele, l’America si sta suicidando, quando ormai sarà tardi per cambiare le cose.
Mai nella storia gli Stati Uniti sono stati più screditati e ridicolizzati sul piano internazionale, privi di autorità morale e persino di credibilità militare.
Il 64 % degli inglesi (inglesi!) ritiene Bush più pericoloso per la sicurezza del mondo che Bin Laden.
Dissanguata nelle guerre per Israele - che i suoi generali nemmeno sanno concludere, come i mediocri giocatori di scacchi incapaci di dare il matto - l’America sta perdendo potere persino nel suo cortile di casa imperiale: l’«ondata Chavez» non accenna ad esaurirsi: in Brasile ha trionfato Lula, in Nicaragua è stato rieletto il sandinista Daniel Ortega.
In Bolivia (Bolivia!) Evo Morales ha intimato un ultimatum alle petrolifere americane: hanno sei mesi per rinegoziare i contratti di sfruttamento, altrimenti i loro impianti saranno confiscati.
Un ritorno sugli investimenti del 15-18 % è quello giusto per le compagnie, ha detto Morales, il resto deve andare al popolo boliviano.


In altri tempi, la CIA avrebbe fatto l’inferno per stroncare questa, come chiamarla?, rivolta castrista del Sudamerica: oggi non può.
Le guerre per Israele succhiano tutte le risorse, il morale e la capacità combattiva delle forze armate sono a terra, la sua capacità di intimidazione è annullata.
Russia e Cina sono sempre più salde in un’alleanza militare.
Mosca ha deciso di connettere la sua rete ferroviaria a quella dell’Iran, segnale evidente di una collaborazione commerciale e militare (sui pianali si portano armamenti pesanti) di proporzioni storiche. (1)
E’ un altro colpo mortale al prestigio dell’America e al suo dominio imperiale.
Molti, troppi americani hanno votato repubblicano perché ammansiti dal ribasso di 80 cents di benzina alla pompa.
Dai prossimi giorni, Goldman Sachs, l’autrice del ribasso artificiale, smetterà la manipolazione elettorale dei prezzi, e il petrolio risalirà.
Ciò farà ribassare ulteriormente il dollaro (2), riducendo il potere d’acquisto dei consumatori: che sono il vero motore del «miracolo economico» americano.
Ma poiché la classe media ha visto solo scendere i suoi salari reali da almeno cinque anni, per consumare ha estratto soldi dalle sue case di proprietà: ipotecandole, nell’euforia creata dai prezzi immobiliari crescenti.
Fra marzo 2005 e marzo 2006, gli americani hanno succhiato dalla loro proprietà 825 miliardi di dollari, che hanno speso in oggetti voluttuari e non durevoli, schermi piatti, carabattole e vestiario cinesi, auto nuove, tutto di tutto.

Ora, resta il debito, quegli 825 miliardi, da ripagare.
E la bolla immobiliare si sta sgonfiando.
Le case ipotecate per un valore 100, valgono già 90, e presto 80 e 70.
In un’America deindustrializzata, l’edilizia fornisce il 10 % del prodotto interno lordo. (3)
Ed ora è ferma e sta calando la costruzione di nuove case, con effetti prevedibili su tutto l’indotto, dai legnami alle tubature, dagli impianti elettrici ai mattoni.
Il «miracolo» americano, retto sul consumo voluttuario, era già di per sé illusorio: nel secondo quadrimestre il PIL USA è cresciuto di un minuscolo 1,6 % - una crescita pari a quella dell’Italia di Prodi - e quel che è peggio, gran parte di questa crescita è dovuta al fatto che le industrie di auto USA, alla disperata, mentre licenziano i lavoratori, vendono le loro auto interamente a rate senza anticipo: anzi sono loro ad anticipare - incredibile dictu - 3 mila dollari a chi l’acquista: il che ha indotto milioni di latinos e immigrati senza un soldo a comprarsi l’auto nuova, non tanto per l’auto quanto per avere in tasca 3 mila dollari in contanti: cifra che non hanno mai visto in vita loro.
E che certo non saranno in grado di ripagare.
Ma tutto in USA gira così, in una girandola di insolvenza.
Le banche fanno prestiti senza chiedere anticipi né garanzie: ciò ha attratto debitori che non avranno mai i mezzi per restituire.
Il tutto, grazie a tassi d’interesse bassissimi.


Ma questa situazione ha reso paralitica la Federal Reserve: fino ad oggi, il dollaro è stato tenuto su (o frenato nella caduta) da tassi sui Buoni del Tesoro USA più alti, relativamente ai BOT europei. Ora l’Europa, e persino la Banca Centrale elvetica, hanno aumentato i loro tassi.
Il differenziale che rende i BOT americani apparentemente più convenienti, si assottiglia.
La FED dovrebbe rialzare i tassi; ma se lo fa destina alla rovina decine di milioni di americani indebitati, che sarebbero schiacciati dagli interessi passivi crescenti.
Un vicolo cieco.
Il trucco dei consumi a credito, sussidiati per di più, sta per finire.
Ora, la tendenza sta per invertirsi: comincia il «rallentamento», che i grandi media bugiardi non chiameranno con il suo vero nome, «recessione».
Le multinazionali e tutte le altre imprese, quando i consumatori consumeranno meno, investiranno meno in impianti, per ridurre l’invenduto; metteranno i loro profitti (immensi negli anni scorsi) nell’improduttivo riacquisto di azioni proprie, per sostenerne i corsi.
I media bugiardi grideranno, esultanti, che la Borsa sale, dunque l’economia fiorisce…


La realtà di questa fioritura sta tutta in due cifre: 30 milioni di dollari, e 80 milioni di dollari.
La prima - 30 milioni di dollari - è quanto la Cina incamera ogni ora in valuta estera (dollari per lo più) grazie alle sue esportazioni.
La seconda - 80 milioni di dollari - è quanto il capitale nazionale americano perde ogni ora.
Gli Stati Uniti stanno dissanguandosi in un’emorragia tragica; presto i capitali disponibili non saranno abbastanza per innescare una qualunque ripresa.
L’America si suicida, rimpicciolisce di 80 milioni di dollari l’ora, mentre Pechino cresce di 30 milioni l’ora.
La Cina dispone ormai di oltre un trilione di dollari in riserve.
Con quei dollari, potrebbe comprare tutti i terreni fertili degli Stati Uniti.
O un terzo del capitale azionario americano; oppure quote di controllo in ogni singola azienda americana.
Se lo facesse, i lavoratori americani lavorerebbero sotto padroni cinesi: e sarebbe giusto, come nell’antichità i debitori insolventi diventavano schiavi dei creditori.


Ma la Cina stessa rischia l’implosione per «sovraccapacità produttiva», produce troppe merci e la sua popolazione, con poco potere d’acquisto, ne compra poche.
Per scongiurare la sovraccapacità, con la deflazione e i crack a catena che ne conseguirebbero, ha bisogno che gli americani dissanguati continuino a comprare le sue carabattole a milioni di tonnellate; dunque deve continuamente prestare al debitore insolvente, perché continui ad ingozzarsi; e intanto dare alla Casa Bianca i fondi per continuare le sue guerre.
I due mostri sono legati, come Moby Dick e il capitano Achab, nella stessa sorte e nella stessa apocalisse.
Il dollaro calante trascina entrambi verso il fondo: e il tutto, mentre i media bugiardi ci segnaleranno la Cina come modello da imitare, e gli USA come economia in crescita trionfale.
Per tutto questo hanno votato gli elettori americani, rifiutandosi di liquidare il partito repubblicano che li dissangua, perché la benzina era diminuita di 80 centesimi a gallone, e perché non sono capaci di liberarsi dalla lobby ebraica che li teleguida.
Il solo atto di sovranità popolare, l’hanno sprecato.
Anche l’avventura storica della democrazia è arrivata, mi pare, all’ultima fermata.

Maurizio Blondet


Note
1) Teheran, 4 Novembre (ISNA) - «Iran’s railroad organization manager and his Russian counterpart emphasized on the connection of the two countries railroads. In a session held with the presence of the Federal Russian railroad manager issues such as the joint venture transportation company, a shared train wagon repair company, launching a shared research so to equip Iran’s railways with electricity and shared investments on specific lines will be discussed», said Mohammad Saiednejad. «The Federal Russian railroad manager also while explaining about the capabilities and experiences of the railroad industry in his country, expressed his countries will to transfer all required experiences to Iran».
2) Axel Merck, «Dollar poised for a dip», Asia Times, 8 novembre 2006.
3) Jim Willie, «Spent dollar momentum», GoldenJackass.com, 7 novembre 2006. Si veda anche Susan Walker, «How 2006 is like 1968», Daily Reckoning, 7 novembre 2006.


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30.11.06

Emerge il populismo? Il capitale lo teme.
Maurizio Blondet
28/11/2006
Il sempre ostacolato Jean-Marie Le Pen

Due titoli consecutivi su Le Monde in prima pagina; Il 24 novembre, tre colonne: «6,9 milioni di francesi vivono con meno di 800 euro al mese».
Giorno seguente, a tutta pagina, allarmatissimo: «Intenzioni di voto per Le Pen, 17 %».
C'è un'evidente relazione fra le due notizie.
L'impoverimento storico delle popolazioni europee dovuto alla globalizzazione (la concorrenza salariale cinese o polacca) è in pieno corso (1) e alimenta l'insubordinazione popolare verso la politica «ufficiale».
Il «fascista» Le Pen preoccupa da decenni Le Monde, ossia la massoneria.
Molto tempo fa (doveva essere ai tempi di Mitterrand) il Grande Oriente di Francia convocò i responsabili dei due partiti ufficiali, socialisti e «gaullisti» (o pseudo), e li impegnò a non stringere mai alleanza con il Front National.
Cito a memoria - non ho tenuto il ritaglio dell'epoca - ma ricordo perfettamente che il patto ci fu e fu firmato.
In seguito, i trucchi operati sui collegi dalla «democrazia» (terminale come il capitalismo, con tassi di astensionismo spaventosi), hanno consentito questo: che un partito con il 15% dei voti non abbia un solo deputato all'Assemblea, mentre per esempio il partito comunista, praticamente estinto salvo in qualche roccaforte ex-operaia, ne abbia una ventina.
Le Pen viene continuamente demonizzato, il suo partito marginalizzato o trattato come non esistesse, oscure manovre e occulti finanziamenti vi hanno prodotto scissioni e defezioni di «fronti nazionali» dissidenti.
Di tanto in tanto, Le Monde commissiona un sondaggio per vedere se il favore per il Front è in calo: dopotutto Le Pen è vecchio, ha superato i 70…
Invece no: lo zoccolo popolare resta solido e duro, anzi si allarga.
Dunque sulle elezioni presidenziali del 2008 grava di nuovo l'incubo del 2002: quando ad uscire vincitori dal primo turno contro i gollisti non furono, come previsto e voluto, i socialisti al caviale, ma Le Pen.
Al ballottaggio, la sinistra chic dovette scegliere tra Le Pen e Chirac: ovviamente si turò il naso e votò quest'ultimo, anche perché istericamente indottavi da una campagna mediatica di terrorismo: pareva, a leggere i giornali, che le SS stessero per entrare di nuovo a Parigi.
Chirac fu votato da una maggioranza che lo detestava, come male minore: da qui la sua legittimità perlomeno imperfetta, che lo ha indebolito ed ha alienato ancora di più i francesi dalla politica «ufficiale».


Si stanno compiendo frenetiche manovre per impedire a Le Pen di guastare il gioco prefabbricato ponendo ancora la sua candidatura presidenziale: gli occorrono 500 firme di persone elette, e probabilmente non le avrà.
E se non si presentasse lui, per chi voterebbero i suoi elettori?
Anche questo ha chiesto il sondaggio.
Risposta: darebbero 8 punti in più a Sarkozy (la «destra» neocon), ma 5 punti a Segolène Royal, la candidata delle sinistre, portandola alla pari con il primo (ciascuno dei due candidati avrebbe, ad oggi, il 37 %).
Dunque molti elettori di Le Pen tendono a sinistra, non alla destra massonica ufficiale e liberista. Cosa nota: l'elettorato del Front è operaio e popolare, non chic, abita nelle banlieues dei disordini.
Segolène è un fenomeno metà mediatico e metà spontaneo, i suoi nemici la definiscono «la Madonna dei sondaggi» (intesa come la cantante, non la Vergine); è tutt'altro che una figura nuova di outsider come ama dipingersi.
Tuttavia, la sua campagna è interamente giocata su motivi di «populismo», e questo basta ad allarmare le oligarchie finanziarie.
Le hanno chiesto quale sia la sua idea a proposito della Turchia nella UE. Ha risposto: «La mia idea è quella dei francesi»: furbamente evasiva, ma inquietante per gli oligarchi già solo per questo appello al popolo.
E' significativo che Barbara Spinelli, l'amante di Padoa Schioppa che vive per lo più a Parigi a stretto contatto con la gauche-caviar, la attacchi e ripeta che Segolène non ha idee, che è opportunista.
Il Telegraph di Londra ne segnala però un'idea sgradita: la Royal parlato di un'«Europa forte», di un'Europa-fortezza economico-politica, il programma di De Gaulle.
«Miss Royal è fiduciosa che 'l'Europa può essere rilanciata con Germania, Italia e Spagna'», scrive il Telegraph, notando che dall'elenco è esclusa Londra.
E cita ancora Segolène: «Se altri Paesi vogliono starci, benissimo, ma non possiamo avere un'Europa di cui una parte va alla guerra in Iraq, un'altra non ci va, e noi tutti finiamo per pagare il conto».


Segolène Royal in tutto il suo «fascino» politico


La sua domanda di integrare la politica estera europea, trema il Telegraph, «ha toni stridentemente anti-americani».
E cita con allarme Gilles Savary, portavoce della candidata: «Dobbiamo essere vassalli degli USA? Siamo il 51esimo Stato americano?». (2)
Allarme, allarme: qui si rischia di rompere il fronte liberista globalizzatore; rialza la testa il «populismo», il che significa l'emersione di ciò che la finanza globale teme più di tutto: il «protezionismo», i dazi doganali a difesa delle reti sociali e del lavoro nazionale.
L'allarme è probabilmente prematuro, ma il capitale avventuriero mette le mani avanti.
Tanto più che simili sentimenti populisti emergono nel paradiso del liberismo feroce: negli Stati Uniti. (3)
Il voto di medio termine ha eletto in Virginia un senatore, James Webb, che ha condotto tutta la sua campagna denunciando la crescente iniquità economico-sociale, da 25 anni l'argomento-tabù del discorso politico americano.
In Montana, ha vinto un «populista» socialista di nome Jon Tester, accusato dall'avversario, il repubblicano Conrad Burns, di «fomentare la lotta di classe».
Una tale accusa in USA bastava, ancora pochi mesi fa, a segnale la fine di un candidato.
Oggi Tester ha replicato: «La mia classe è quella media; la vostra, senatore Burns, sono i vostri ricchi amici lobbisti di K Street» (la via dei lobbisti a Washington).
E' stato Burns a perdere il seggio.
Inaudito.
Nel 2004, il democratico John Edwards cominciò a far campagna sul tema delle «due Americhe»
i ricchi sempre più ricchi, i poveri più poveri, precari e indebitati») ma poi la abbandonò su consiglio dei suoi strateghi elettorali (e perse).
Oggi, quasi tutti i candidati democratici hanno almeno fatto un cenno alle disparità crescenti delle fortune.
Un sondaggio del Wall Street Journal ha rivelato, preoccupato, che 24 americani su cento citano l'iniquità nella divisione dei profitti come primo problema del Paese; e tutti accusano, come causa dell'iniquità, l'economia globalizzata e l'avidità dei grandi manager privati, che delocalizzano in Cina non solo i lavori subalterni, ma ormai anche quelli tecnologicamente avanzati.
Persino i giornalisti, serventi del globalismo ideologico, cominciano ad inquietarsi: molti lavori redazionali sono spostati in India, dove redazioni a contratto e anglofone sono disposte a lavorare per un terzo delle paghe americane.


Insomma, non si riesce più a impedire che il tema dell'ineguaglianza e del profitto eccessivo (tema «populista» per eccellenza) emerga nel dibattito pubblico e sui media.
A Parigi Segolène proclama di essere «la candidata dell'insoumission» (della insubordinazione), ma anche in USA gli americani affermano, ogni giorno con più coraggio, di essere stati ingannati.
I capitalisti gli avevano promesso: «Se studiate di più, resterete i primi nel mondo globalizzato, anche se perdete lavori operai, vi accaparrerete i lavori tecnologicamente più sofisticati».
Ma ora anche gli ingegneri elettronici, i progettisti e gli esperti di marketing perdono il posto perché India e Cina sfornano ingegneri, esperti elettronici e maghi del marketing a un decimo dei salari americani.
Se la qualità e lo studio fossero il fattore chiave, allora sarebbero vincenti quei 20-30 americani su cento che si sono riciclati, dati alla formazione permanente, ed hanno aumentato la loro produttività personale in modo prodigioso.
Invece, i vincenti sono solo l'1 % dei già ultraricchi nella finanza e nelle banche: quell'1 % che si accaparra oggi il 20 % del reddito personale americano, il doppio di quello che si accaparrava negli anni '70.
Ora, la classe mediana americana ha visto i propri redditi calare in termini reali, mentre gli speculatori, esaltati dai media, divoravano emolumenti da miliardi di dollari; lottano contro i costi crescenti dello studio, le rette universitarie ormai proibitive togliendo ai figli della classe media la speranza di migliorare o almeno restare a galla con la meritocrazia.
E con sempre maggiore lucidità denunciano la «deregulation» liberista; un sistema fiscale - concepito da Reagan e aggravato da Bush - studiato per favorire gli speculatori finanziari e gli insider delle multinazionali; l'abbandono totale, in nome del liberismo fai-da-te, della tradizione (che fu americana) degli investimenti pubblici che consentivano una certa uguaglianza iniziale nelle opportunità, il cuore del «sogno americano» come terra dove chi è bravo può emergere senza ostacoli.
Insomma si sveglia «il popolo», e i democratici vengono avvertiti dai poteri forti a non cedere al «populismo»; soprattutto, a non proporre misure protezionistiche contro la Cina…
I democratici vorrebbero ubbidire, come sempre, alla finanza.


Il democratico
Jon Tester in una foto molto populista


Ma sentono che il loro elettorato sta diventando minaccioso.
Per esempio, un democratico non identificato ha confidato: «Se entro sei mesi non c'è un cambiamento di rotta in Iraq, la gente scenderà nelle strade come ai tempi del Vietnam».
Una novità inaudita viene qui ventilata: disordini popolari in USA.
A dirlo è stato un personaggio chiave della lobby ebraica, Giora Romm, il primo analista del Jewish Institute for National Security Affairs.
Questo è l'organo della lobby ebraica che tiene in pungo il sistema militare-industriale americano, il Pentagono e le lobby finanziarie USA ed è stato in grado di scatenarle nell'interesse di Israele, mandando gli americani a guerreggiare in Iraq.
Ma ora non ci riesce più, ha spiegato Giora Romm parlando a Gerusalemme, il 21 novembre scorso, davanti ai responsabili del ministero degli Esteri israeliano.
Costoro volevano assicurazioni sul fatto che Bush, azzoppato o no, bombarderà l'Iran per Giuda. Romm, che è pilota militare, vicedirettore dell'armata israeliana e capo dell'Agenzia Ebraica, ha raggelato i presenti: i poteri forti non riescono più a contenere la rivolta e la rabbia che salgono dal basso.
«Se Bush farà qualcosa di fisico contro l'Iran, subirà l'impeachment. Non v'illudete che Bush possa compiere un'altra azione bellica; ha perso ogni credibilità militare. L'americano medio non crede che l'Iran sia un pericolo per il suo Paese, e non sarà convinto da un'intelligence raffazzonata (come quella usata per l'Iraq)». (4)
Anche questa è insoumission, insubordinazione populista.
I democratici, temono i gestori del capitalismo speculativo, sono stati votati da questa rivolta: dovranno concedere qualche misura di protezionismo, qualche dose di «socialità» a difesa del lavoro nazionale, perché il loro elettorato li tallona, sospettoso, e li preme.


Sta avvenendo anche in Europa, e non solo in Francia.
In Olanda, l'establishment oligarchico rappresentato dai cristiano-democratici di Balkenende, liberista e fautore delle «riforme» (leggi: tagli alle sicurezze sociali) raccomandati dall'ideologia globalista, è stato sconfitto da un partito socialista estremista e anti-global sulla sinistra, e sulla destra dal Partito della Libertà, anti-immigrati. (5)
In Austria il cancelliere cristiano-democratico è stato battuto da un partito socialista che ha condotto una campagna populista.
Nella Germania della liberista Angela Merkel e delle «riforme» dure per tagliare i «costi sociali», il premier CDU del Nord-Reno e Westfalia ha rotto clamorosamente i ranghi, denunciando le «riforme» come inumane, eccessive e inique; ed ora si è posizionato alla sinistra dei socialdemocratici, con grande imbarazzo della Grosse Koalition.
Emerge il populismo, con le sue caratteristiche iniziali: non più passività ma rabbia attiva, militante; istanze «sociali» (di «sinistra») unite alla richiesta di ordine nazionale, magari xenofobo e per la «preferenza nazionale» (di «destra»).
E' un movimento che cerca a tentoni il suo leader, che interpreti le sue istanze, disprezzate dall'establishment e dalle varie oligarchie burocratiche.
Esiste da decenni, come dimostra lo zoccolo duro lepenista, fino ad oggi emarginato.
Ora la novità è che dei politici cominciano a cavalcarlo anziché spregiarlo.


E' stato notato che Segolène Royal, nei dibattiti TV, non si rivolge ai politici istituzionali suoi interlocutori nel dibattito, ma al popolo: questo colloquio diretto fra lei e la gente, che scavalca le istituzioni e i suoi figuranti, è ovviamente populista al massimo grado.
Ogni populismo invita, ovvio, uno stile «demagogico» del capo candidato.
La Royal, dicono, è opportunista.
Deve il suo seguito al suo charme, e al suo sorriso; ma non ha un programma definito, anzi si guarda bene dal definirlo.
Vero.
Ma nella temperie emergente che gli avversari chiamano populista, questi non sono difetti fatali.
Il successo dipende assai poco dalle qualità oggettive del capo-demagogo, e molto più dalla fiducia che il «popolo» gli tributa; perché un popolo che ha fiducia mobilita le sue proprie energie, che invece nega o che sono mortificate dalle oligarchie che sgovernano il mondo ormai da vent'anni.
In questo senso, William Pfaff (6) paragona il clima che circonda Segolène Royal a quello che avvantaggiò Franklin Delano Roosevelt nella sua prima presidenza, quando l'America lo votò perché sprofondava nella recessione provocata dalla finanza liberista nel 1929, e Roosevelt promise il «New Deal», ossia un nuovo patto sociale.
«Roosevelt nel '32 non aveva alcuna idea di come avrebbe fatto il New Deal», dice Pfaff: «Era una frase propagandistica che aveva buttato lì a caso nel discorso di accettazione» alla candidatura presidenziale.
«Ancor meno lo sapevano i suoi consiglieri universitari ed economisti professionali. Ma lo sapevano le migliaia di persone che le idee le avevano, e che erano pronte a lavorare con lui, e che lui seppe ascoltare. Furono queste migliaia ad improvvisare il New Deal. Molte cose non funzionarono; e quelli ritentarono di nuovo. Alla fine ne risultò un insieme non programmato di innovazioni che diedero agli USA una originale e pragmatica risposta alla grande depressione».


La descrizione è parecchio idealizzata, ma coglie l'essenziale: Roosevelt si limitava a parlare al popolo a fianco del caminetto, a dire frasi come «non dobbiamo avere paura d'altro che della paura stessa», e il popolo si sentì paternamente capito, rassicurato e guidato.
In Europa, come noto, la rivolta popolare dovuta alla grande depressione degli anni '30 originò gli autoritarismi social-nazionali, i fascismi.
Col loro corredo di dirigismo economico, autarchia, disciplina, fiducia mistica nel capo - e militarismo.
In quella forma il populismo non tornerà.
I fascismi furono fenomeni storicamente irripetibili, l'opera di Paesi demograficamente giovani e di giovani demagoghi, la cui gioventù per di più era appena uscita dalla grande guerra, dove aveva appreso la solidarietà fortissima che si instaura tra combattenti che rischiano insieme la morte, l'obbedienza funzionale alla gerarchia degli ufficiali, e l'uso delle armi; anche a sinistra la classe operaia comunista fu organizzata come «armata del lavoro».
Sarà interessante vedere che forma prenderà il populismo in un'Europa demograficamente spenta, fatta di anziani con figli trentenni a carico e disoccupati cronici; un'Europa che non ha ambizioni ma solo impulsi difensivi dello status quo, e per di più - assuefatta agli edonismi di bassa lega indotti da 60 anni senza guerra e senza privazioni, secolarizzata e scettica - non ha alcuna disponibilità al sacrificio in nome del bene comune patriottico.
Ma il populismo riemerge, ed ancora una volta esige capi in cui possa avere fiducia, che ascoltino il popolo anziché le lobby e gli interessi costituiti, che salvi il lavoro con dazi, che lo diriga secondo un progetto.


La morte nei giorni scorsi di Milton Friedman - il monetarista che fu l'autore spirituale del liberismo senza limiti, il dittatore e sacerdote supremo dell'ortodossia privatizzatrice e anti-sociale - è in questo senso un auspicio: un'epoca tramonta.
Persino il Financial Times ricomincia a parlare di John Maynard Keynes… perché il keynesismo è sempre meglio, per gli ideologi della globalizzazione, che il populismo, i suoi «demagoghi» e i suoi nazional-socialismi dirigisti.
E' in ogni caso il pendolo che torna indietro, torna ad oscillare verso una guida politica dell'economia e un suo controllo popolare.
Vedremo che forma prenderà.
Il populismo è stato sempre, per l'Europa, una grande forza storica, più convincente e più radicato della «democrazia» partitica e parlamentare che invece ci è stata imposta dai vincitori.
Ora, è possibile che il clima cambi in America - e allora verrà, come sempre, da noi come nuova moda culturale.
Per l'Italia, tuttavia, c'è un pericolo in più.


Milton Friedman in una foto recente


Da noi Berlusconi e Bossi hanno intrapreso precocemente la via populista (l'Italia è stata ancora una volta un laboratorio politico d'Europa) e l'hanno tradita, guastata, sprecando l'occasione forse irripetibile e svendendo il popolo.
Del nuovo movimento che verrà da fuori si proclamerà padrona la casta delle burocrazie che è attualmente al potere col nome falso di «sinistra», che potrà sostenere di essere sempre stata, in fondo, anti-capitalista, «sociale», dirigista e «operaia».
Qui è l'equivoco fatale.
In USA, il populismo americano ha lucidamente di mira i miliardari privati, gli speculatori, i super-manager: che sono pur sempre dei privati appunto, che scremano la maggior parte dei profitti a danno dei lavoratori; ma profitti privati.
Da noi, i parassiti di cui l'Italia deve liberarsi sono invece i miliardari pubblici, le caste burocratiche di Stato inadempienti, gli avidissimi saccheggiatori fiscali e le loro clientele privilegiate che si sono protette per tempo da ogni competizione, e che sono della più bassa qualità monopolista: proprio coloro da cui dobbiamo liberarci si prenderanno ancor più potere, proclamandosi per di più nostri liberatori dal liberismo selvaggio.
Dov'è, dov'è il demagogo in cui sperare?
Dov'è la nostra Segolène?

Maurizio Blondet



Note
1)
L'impoverimento storico dei ceti medi europei dovuto all'entrata nel mercato globale di Cina, India ed Est europeo era prevedibile e largamente previsto: chi scrive lo ha denunciato in un libro del 2004, «Schiavi delle banche». Non lo si dice per vanteria, al contrario: se la cosa era evidente a un economista dilettante come il sottoscritto, tanto più doveva esserlo per gli economisti ufficiali, premi Nobel e banchieri centrali. C'è stato uno sforzo attivo e concertato per impedire che questo esito inevitabile arrivasse alla coscienza pubblica. Gli economisti Nobel, ufficiali e banchieri hanno invece promosso l'idea che l'apertura mondiale a Paesi con salari irrisori e costi della vita minimi, privi dei «costi» sociali, sindacali e assicurativi sul lavoro che sono la palla al piede dei sistemi europei, sarebbe stata benefica perché avrebbe ridotto i prezzi delle merci, avvantaggiando «i consumatori». E' una delle tante verità che sono state censurate dal liberismo terminale, concepito come un sistema di menzogna.
2) David Rennie, «Segolène urges Britain to choose between Europe and America», Telegraph, 22 novembre 2006. «Miss Royal was confident that 'Europe can be relaunched with Germany, Italy and Spain. It is perfectly possible to have treaties within the treaty, among four nations,' he said. 'If other nations want to sign up, that's good. But we cannot have a Europe where one part goes to war in Iraq, another part does not, and we all end up paying the bill. […] He demanded efforts to integrate foreign policy and cast that struggle in searingly anti-American tones. Mr Savary said: 'The question that needs to be asked is - do we want to be vassals of the United States, do we want to be a 51st state?'».
3) James Lardner, «Populism's revival» San Francisco Chronicle, 22 novembre 2006.
4) «La confusion du piège irakien et la crainte des dèsordres populaires au USA», Dedefensa, 24 novembre. Dedefensa cita un dispaccio dell'agenzia ebraica Ynet. news del 22 novembre sull'incontro di Girora Romm con l'establishment israeliano.
5) Wolfgang Munchau, «The Dutch are leading a popular rebellion», Financial Times, 27 novembre 2006. Si noti come il termino «popolare» o «populismo» sia accompagnato dal termine «ribellione»: le lobby temono la rivolta popolare, la revulsione di massa contro il capitalismo terminale che depreda la classe media.
6) William Pfaff, «Segolène Royal as Franklin Delano Roosevelt», Herald Ttribune, 1 novembre 2006. Gli articoli di questo notevole columnist americano, cattolico, che vive a Parigi, si possono leggere al sito www.williampfaff.com


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26.10.06

Nasce la lobby delle colombe
Maurizio Blondet
25/10/2006
George Soros

STATI UNITI - Pare che George Soros abbia deciso dopo la guerra israeliana contro Hezbollah e la distruzione del Libano: per il bene di Israele, occorre una nuova lobby ebraica negli Stati Uniti.
Che prenda le distanze dai neocon israelo-americani, e promuova, presso il potere americano, anziché la guerra perpetua alla Leo Strauss, il ritorno a una pace negoziata e una soluzione a «due Stati» con i palestinesi.
Soros sta profondendo denaro nella iniziativa.
La difficoltà pare essere quella di trovare un sufficiente numero di ebreo-americani abbastanza influenti e abbastanza colombe.
Quelli fino ad oggi aderenti sono figure di secondo piano: David Elcott, direttore di un Israeli Policy forum; Debra DeLee, presidente di American for Peace Now, un rabbino David Saperstein che dirige un Religious Action Center of Reform Judaism (ossia un esponente dell’ebraismo «riformato», filo-luterano, un tempo egemone in USA, ma che ha perso terreno e seguaci in favore dei fanatici Lubavitcher, il movimento oggi dominante), nonché Mort Halperin, uno dei direttori dell’Open Society Institute, la fondazione dello stesso Soros che promuove la «democrazia all’Est», nonché l’eutanasia e la liberalizzazione delle droghe: un dipendente del finanziere ebreo-ungherese.
Il solo simpatizzante che abbia un passato politico di rilievo pare essere Jeremy Ben-Ami, che è stato consigliere di Bill Clinton.
La nuova lobby, come la vecchia, avrà a cuore Israele più degli USA, di cui tutti costoro sono cittadini: «E’ Israele che ci sta profondamente a cuore, e il conflitto in Libano ha mostrato i rischi che Israele corre, se non arriva alla pace il più presto possibile», dice Ben-Ami.
E Soros: «Va interrotto questo circolo vizioso di violenza crescente».
L’analisi di costoro, che circola da tempo sottobanco fra i moderati e i preoccupati, è interessante. L’estremismo neocon della lobby ebraica dominante in USA (l’AIPAC, American Israeli Political committee, e le sue varie filiazioni e collegate) favorisce l’emergere alla guida dello Stato ebraico di estremisti pericolosi, proprio perché garantisce - con la sua presa totale sui parlamentari USA e sulla Casa bianca - l’appoggio cieco degli Stati Uniti ad ogni aggressione e violazione israeliana. Insomma i due estremismi si rafforzano a vicenda, non incontrano limiti nella Casa Bianca, e si spingono l’un l’altro ad azioni sempre più azzardate e irreparabili.


«Costoro (i neocon ebrei) hanno costruito un ghetto di Varsavia mentale» fra i giudeo- americani, ha denunciato Norman Birnbaum, già professore alla Georgetown University.
Birnbaum è uno dei primi 150 firmatari di una lettera aperta inaudita, che accusa esplicitamente la lobby ebraica dei falchi di controllare il discorso pubblico in America con metodi e intimidazioni da «vigilantes».
Di fatto, un regno del terrore.
Nelle università, si legge nel documento, «studenti vengono arruolati come ‘informatori’contro i loro insegnanti».
Se un insegnante parla a favore dei palestinesi, gli studenti-delatori avvertono chi di dovere, e «le università ritenute non abbastanza filo-israeliane vengono assoggettate a pressioni da parte dei governi degli Stati e da donatori privati», che minacciano di tagliare i fondi agli istituti.
Quanto al terrore che la lobby impone al sistema politico americano, la lettera chiede retoricamente: «Qual’ è l’ultima volta in cui abbiamo sentito un qualunque candidato, a qualunque ufficio pubblico, non professare il suo ardente attaccamento allo Stato di Israele?».
Sottinteso: nessuno osa farlo, altrimenti la sua carriera politica finisce lì.
Il coraggio di firmare una simile lettera è venuto a 150 prominenti ebrei accademici, ex diplomatici ed alti funzionarti di Stato dopo la denuncia di Tony Judt.
Ne abbiamo parlato (1): questo storico ebreo britannico, assai critico sul Reich isrealiano, che doveva tenere una conferenza nella sede del consolato polacco a New York, è stato impedito di parlare perché la Anti-Defamation League aveva telefonato ai polacchi minacciandoli di «esporli in tutti i giornali come antisemiti».
Il consolato aveva cancellato l’incontro.
Judt ne aveva scritto ai colleghi ebreo-americani di questa censura occulta basata sull'intimidazione: «Spero che troviate la cosa inquietante e agghiacciante, come la trovo io».
Ma in realtà, un numero crescente di ebrei non accecati dall’ideologia di Leo strauss si accorgono che l’atmosfera massicciamente pro-giudaica sta cambiando anche in USA, nonostante il ferreo controllo dell’AIPAC.
Gli indizi non mancano.


Lo studio dei due rispettati politologi Walt e Mearsheimer intitolato «The Israeli lobby», benchè abbia dovuto essere pubblicato in Gran Bretagna per paura degli editori americani, ha rotto il tabù che vieta di parlare dei costi finanziari, politici e morali per gli USA del sostegno incondizionato ad Israele.
La ferocia degli attacchi israeliani contro il Libano ha distrutto l’aura di superiorità morale dello Stato ebraico a livello internazionale - non è stato possibile ripetere la propaganda per cui Giuda «si sta solo difendendo» - e ciò comincia a riflettersi nel discorso pubblico americano, ai livelli alti.
«Quando noi forniamo a Israele bombe a frammentazione, è un atto di pace e amicizia internazionale; quando l’Iran fornisce armi a Hezbollah, è un atto di terrore», ha ironizzato Zbigniew Brzezinsky in un discorso tenuto all’American Foundation: «Bush dovrebbe dire: la politica sul Medio Oriente la faccio io, o la fa l’AIPAC?».
L’ex presidente Jimmy Carter ha appena pubblicato un libro dal titolo «Palestine: peace, no apartheid» dove denuncia appunto l’apartheid praticato dallo Stato ebraico.
Persino Bob Woodward, il giornalista del Washington Post noto maggiordomo dei poteri forti, ha scritto che, secondo Colin Powell, il vice-ministro alla Difesa Paul Wolfowitz, e l’altro sottosegretario Douglas Feith «avevano stabilito l’equivalente di un governo separato» nel Pentagono, «ciò che Powell chiamava ‘la Gestapo’».
Una prima, velata denuncia del fatto indicibile: quegli ebrei neocon (Feith lo è come Wolfowitz) hanno fatto un colpo di Stato, per trascinare l’America in ciò che William Odom ha definito «il più grave disastro militare della storia degli Stati Uniti», la guerra in Iraq.
E Odom è ebreo, esperto militare e ha diretto la National Security Agency (NSA) sotto Reagan.
Può essere «l’inizio di una perestroika» americana, ha scritto Philipp Weiss, il columnist del New York Observer: il potere ebraico non è più in grado di controllare con il terrore totalitario il discorso pubblico.


Ma c’è un altro motivo all’iniziativa di Soros, più profondo e inconfessato.
L’AIPAC è da anni sotto inchiesta per spionaggio a favore di Israele.
Due suoi lobbisti di primo piano, Steve Rosen e Keith Weissmann, sono stati filmati, intercettati e colti sul fatto dall’FBI mentre si facevano consegnare documenti segreti del Pentagono da un funzionario di questo, Larry Franklyn.
E sono stati denunciati alla magistratura.
E stranamente, l’inchiesta non è stata soppressa, anzi procede e si allarga.
Una ex-analista del Pentagono, Karen Kwiatowski, ha rivelato che ufficiali isrealiani - dunque di uno Stato straniero - avevano accesso senza limiti all’Office of Special Plans (la «Gestapo» annidata dentro il Pentagono, il cui capo era Richard Perle) e partecipavano alle riunioni più segrete e al più alto livello senza mai firmare a prova della loro presenza: cosa che, se provata, potrebbe portare a processi per alto tradimento. (2)
Secondo Justin Raimondo (3), l’FBI starebbe indagano anche su pressioni che l’AIPAC e persino Haim Saban (miliardario ebreo, capo di un gruppo di media) avrebbero fatto su Nancy Pelosi, la portavoce dei democratici) perché salvasse Jane Harman, una deputata democratica coinvolta nella faccenda di spionaggio dell’AIPAC.
Insomma l’AIPAC rischia qualcosa.
Come minimo, la reiscrizione come lobby: non più «americana», ma «di uno Stato estero».
Ciò segnerebbe un indebolimento della sua presa sulle istituzioni USA e una diminuito accesso al potere americano e ai suoi segreti.
Anche per questo, e forse soprattutto per questo, Soros si sta affrettando ad allestire una «lobby delle colombe» per Israele: come scialuppa di salvataggio e lobby di riserva nell’interesse del solo Stato che gli sta a cuore.
In questa atmosfera, va segnalata la posizione di Gore Vidal, il noto scrittore ebreo-americano che vive in Italia.
«Non credevo di vivere tanto da assistere alla cancellazione della Magna Carta», ha detto disgustato dopo il varo della legge sui tribunali speciali per «enemy combatants».
Ed ha definito il governo Bush «un colpo di Stato in cui abbiamo perso la repubblica». (4)
Ma la novità viene dopo.


A proposito dell’11 settembre, Gore Vidal ha detto che «sarebbe un momento ideale per aprire un’inchiesta».
E alla domanda se secondo lui Bush e Cheney potrebbero fare un «altro» attentato terroristico false flag per poter risollevare i loro sondaggi in calo, gridare al lupo islamista e unire il Paese di nuovo contro il terrorismo, lo scrittore ha risposto, come avesse informazioni dirette: «Avevano in mente di farlo, diciamo. Ma ora non vedo come possano. I nostri militari non glielo lascerebbero fare. [Il gruppo di potere] ha troppo antagonizzato i militari».
Ed ha concluso: «Per la prima volta sono un poco ottimista, sento che la corrente sta mutando».

Maurizio Blondet


Note
1)
«Un Reich pedofilo?», su Effedieffe, 5 ottobre 2006. Ecco la lettera che Tony Judt ha mandato al New York Sun: «… l’incontro è stato cancellato perché il consolato di Polonia è stato minacciato dall’Anti-Defamation League. In una serie di telefonate Abe Foxman, il presidente della ADL, ha intimato loro di non ospitare nessuna riunione in cui c’entrasse Tony Judt. Se non rinunciavano, ha avvisato, egli avrebbe smascherato la collaborazione di polacchi con antisemiti anti-israeliani (ossia il sottoscritto) su tutte le prime pagine di tutti i quotidiani della città. Si sono piegati, e Network 20/20 è stato costretto a cancellare l’incontro. Comunque la pensiate sul Medio Oriente, io spero che troviate la cosa grave e paurosa come la trovo io. Questi sono, o erano, gli Stati Uniti d’America».
2) Karen Kwiatowski, «Open door policy - a strange thing happened on the way to the war», American Conservative, 19 gennaio 2004.
3) Justin Raimondo, «The lobby unmasked - the AIPAC spy scandal has many tentacles», Antiwar.com 23 ottobre 2006. Articolo di cui consigliamo la lettura integrale.
4) Paul J. Watson, «Gore Vidal assured military would prevent staged terror», PrisonPlanet, 24 ottobre 2006. Anche di questo testo si raccomanda la lettura integrale. Notevoli le accuse di Vidal ai media americani, che non hanno vegliato sulle libertà. «Our greatest difficulty at the moment is that our media is totally corrupted - starting with the New York Times - the media belongs to our rulers. In the old days when something ghastly went wrong you could count on journalists writing something about it... there are no voices expressing disagreement». Vidal dovrebbe ringraziare di questo la nota lobby intimidatrice. Ma non gli si può chiedere troppo. Ha già ammesso che l’11 settembre «è stato lasciato accadere di proposito».


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30.9.06

Eutanasia per Mammona
Maurizio Blondet
26/09/2006
Maurizio Blondet

Ai lettori che chiedono il mio parere sull'eutanasia: pietà, esentatemi!
Non basta la disgustosa evidenza?
Una sceneggiata allestita dalla «zona grigia massonica» - i radicali e il loro caso pietoso, subito raccolto da Napolitano - è diventata il cavallo su cui sono saltati i partitanti.
«Il mio regno per un cavallo!», grida il re-criminale di Shakespeare.
Questi l'hanno avuto.
Ora lo cavalcano, il cavallo della morte amministrata: per distrarci mentre loro, Polo e Ulivo, cosiddetta destra e sedicente sinistra, bruciano nel camino in fretta le carte, ossia le intercettazioni Telecom che quasi certamente li inchiodano, e li travolgerebbero se rese note.
Un bel trucco mediatico.
Eutanasia è anche la sola «cosa di sinistra» che la gauche al potere può proporre.
In economia, non possono proporre altro che la «competitività-flessibilità» della globalizzazione liberista, il pensiero unico elaborato dai signori del profitto.
Fateci caso, accade sempre così: quando deve in qualche modo salvarsi, la ricca casta che vive «di» politica anziché «per» la politica, che fa?
Vilipende la pietas dei credenti.
Siamo il loro punching-ball.
I credenti sono ormai pochi, l'applauso è assicurato.
Dico noi credenti, non tanto la Chiesa: quella italiana sa e accetta la sua funzione di sacco da pugni, è per questo che prende l'8 per mille, è questa la «funzione pubblica» che le lasciano svolgere.
Probabilmente in buona fede burocratica, è la Chiesa italiana che è caduta nella trappola della «legalità».
Essa stessa chiede di «legalizzare», sperando di porre così limiti legali al peccato.
Meglio l'aborto, dice, del «Far West».
Invece, il Far West è meglio, se si tratta di legalizzare il delitto.


Ci sono cose che si fanno - si sono sempre fatte - ma che è meglio restino vietate e clandestine.
Una è la tortura.
In Algeria, i militari francesi la praticarono e nel suo modo sinistro «funzionò»; ma se ne assunsero la responsabilità davanti alla corte marziale, la spiegarono - avessero avuto torto o ragione - come un mezzo estremo per la salvezza della patria, perchè l'Algeria era patria, territorio metropolitano, che avevano giurato di difendere.
La giustificazione aveva il senso del tragico, nel senso proprio della tragedia greca: lo scontro fra due valori supremi, inconciliabili, in cui l'uomo all'altezza della tragedia espone sé stesso, rischia la sua vita, violandone uno per obbedire all'altro.
Ma la legalizzazione della tortura - come vuole adesso Bush - abolisce la tragedia e la sostituisce con la procedura burocratica, il mostro freddo.
Una volta legalizzata, la tortura diventa routine: da caso eccezionale e rischioso, diventa uno dei mezzi a disposizione del giudice ordinario.
E i giudici la useranno contro i cittadini normali: fa risparmiare faticose indagini.
Già i procuratori italiani hanno mostrato questa tendenza, con la carcerazione preventiva per estrarre confessioni.
Figurarsi se non approfitterebbero di uno strumento legale così utile.
La legalizzazione come routine la conosciamo: basta vedere l'aborto, diventato, da tragedia e vergogna, mezzo di contraccezione usuale.
L'eutanasia è una delle cose che non vanno legalizzate.
Anche perché nessun giurista potrebbe stabilire, e mettere nel codice, il momento esatto in cui la vita del malato degrada a china di morte, la cura diventa accanimento terapeutico, la morte lasciata accelerata, da crimine, pietà.
E' meglio che lo faccia il medico - come i medici hanno sempre fatto - in piena coscienza della sua tragedia: a lui la responsabilità di stabilire quanto la dose di morfina sia un palliativo e quanto il veleno pietoso.
Sapendo che la sua faciloneria o incuria può essere chiamata in giudizio, e definita omicidio.


Perché gli sia chiaro, al medico, che non va appiattito il momento supremo dell'agonia, quel passaggio indefinibile in cui ciascuno di noi si trova davanti al suo Dio, o alla sua verità. Dovrebbe svilupparsi una terapia dell'agonia che mirasse all'altra, definitiva «guarigione».
Una scienza trascurata.
Chi non darebbe la morfina a un agonizzante terminale?
Io stesso la chiederei.
Però mi trattiene il fatto che i tibetani, nel loro Bardo Thodol, incitano il morente a non addormentarsi, a sostenere da sveglio quel «bivio».
Non mi si rimproveri, prego, di pescare ecletticamente a una religione altra (e magari «falsa»): qui, il buddhismo va considerato una sapienza naturale.
I monaci tibetani parlano di un limite estremo che hanno esplorato, è la loro scienza.
Essi dicono, scientificamente a modo loro, che è ancora possibile fare qualcosa - e infiniti testi medievali, concordi, erano manuali di «apparecchio alla buona morte», i nostri «libri dei morti».
Il medico dovrebbe fare un ultimo gesto terapeutico, invitare il morente ad abbandonare i pesi che possono gravarlo nel «giudizio»: gli odii, le invidie; a chiedere e dare perdono.
A rinunciare una volta per tutte, anche al corpo.
La legalizzazione mira a sottrarci l'ultima occasione spirituale.
E mira a rendere la morte accelerata una procedura normale.
Chi la chiede, in fondo?
All'estero, le assicurazioni private, uno dei più potenti motori finanziari della Massoneria (ricordiamo le nostre Generali, fondate dai Morpurgo).
Da noi l'INPS: gli economisti previdenziali già lamentano: un tempo, un pensionato viveva cinque anni dopo il termine del lavoro e poi moriva, con gran sollievo della casse.
Oggi, disdetta, il pensionato sopravvive vent'anni.
L'esborso è eccessivo, la situazione «va corretta».


Si può correggere in due modi: tagliare le pensioni (impopolare) o tagliare la vita dei vecchi. Nel clima di diritto evolutivo dominante, è facile vedere che la legge «pietosa» per casi estremi sarà allargata via via a furor di popolo: liberateci del nonno, costa troppo!
Non possiamo consumare, andare in vacanza alle Mauritius, comprare il nuovo telefonino!
Il nonno 84enne è sano?
Senectus ipsa morbus est, diceva Cicerone.
I vecchi medici condotti dicevano: il geronte è una statua di sabbia.
Sembra sano, ma basta un raffreddore a ridurlo in polvere.
Non mancherà mai motivo per accelerare le «sofferenze» del vecchietto in casa di riposo: la pietà praticata col pensiero al telefonino.
La pietà di Mammona, il dio del mondo globale-capitalista e finanziario.
Il potere mondiale dei bottegai e degli usurai fa di tutti noi degli strumenti, della produzione o del consumo: da eliminare quando diventano, da profitto, un costo.
L'orrore è che noi ci stiamo, ci lasciamo amministrare come un gregge, e considerare il loro allevamento zoologico da tosare: così tributando, noi per primi, la nostra fede a Mammona, e alle sue leggi indiscutibili.

E poiché siamo in argomento - Mammona - rispondo a quei lettori che mi chiedono cosa rispondo a uno che polemizza con me su internet, quell'Attivissimo spesso citato da Mentana come l'ultima istanza della verità ufficiale sull'11 settembre.
Anche qui, pietà.
Da cinque anni, questo personaggio vuol dimostrare ancora, con leggi della fisica, della chimica e della dinamica, che è normale che due grattacieli a gabbia d'acciaio, colpiti lateralmente, cadano verticalmente.
O che un aereo da 60 tonnellate penetri nel Pentagono e si volatilizzi, senza danneggiare il prato antistante.
Ognuno è libero di seguire i suoi hobby: chi dipinge per hobby, fa di solito quadri ridicoli, ma non è umano farglielo notare.


Io, nei miei libri, non ho mai parlato dei fatti «tecnici», non mi sono mai chiesto se sul Pentagono fu lanciato un aereo o un razzo.
Invece ho esposto i propositi politici che spiegano i moventi di quel falso attentato, che lo prevedono e lo promuovono: la dottrina Wolfowitz sul riarmo, l'auspicio di «una nuova Pearl Harbor» in un documento ufficiale del 2000, le esercitazioni in corso quel giorno, il comando di tali esercitazioni passato dal Norad, cui spettava, a Dick Cheney: qui, la fisica e la chimica non c'entrano nulla.
Non si può smentire con la fisica il fatto che Osama era un agente CIA, e che l'agente pagatore di Mohamed Atta, il generale pakistano Mahamoud dell'ISI, si trovava a Washington quel giorno e, invece di essere arrestato (una settimana prima aveva inviato ad Atta 100 mila dollari) era a pranzo dal capo in carica della CIA e dal futuro capo della CIA.
Né c'entra la statica con il proposito di aggredire l'Iraq e l'Afghanistan, manifestato da quei signori prima dell'11 settembre: c'entra con la volontà di far male, che cerca pretesti e li crea, avendone il potere.
Segua pure il suo hobby Attivissimo.
La sola cosa che mi offende, e a cui rispondo, è che - dicono i lettori - egli parli di me come uno che sostiene la tesi dell'auto-attentato «per far soldi con i suoi libri».
Coi miei libri, cari lettori, anche per gli argomenti trattati, è improbabile fare soldi, diventare ricchi.
Vivo della mia pensione, da quando sono stato licenziato (unico nella storia del giornale «cattolico»).
Una pensione non male, sui 30 mila euro l'anno.
Molti, oggi, guadagnano meno.
Vivo in un bilocale e ho un'auto di seconda mano.


Per riguardo ai più poveri di me, non mi lamento, se non per il fatto che la mia personale forza finanziaria non mi consente di affrontare i rischi tipici del giornalista: le querele per diffamazione o calunnia, e le controquerele che dovrei mandare ai miei diffamatori.
Fra parentesi, è questo il motivo per cui non mi occupo di cose italiane, di Telecom e di Prodi.
In Italia, è accaduto che un giornalista sia stato condannato per diffamazione per aver chiamato «boiardo di Stato» un…boiardo di Stato.
Quello s'è sentito offeso, e un giudice gli ha dato ragione.
Non c'è difesa in Italia, per chi voglia dire la verità, e non abbia milioni per gli avvocati.
Così, non mando querele ad Attivissimo per la sua insinuazione.
Faccio notare ai lettori che, io, quando pubblico una notizia insolita, contraria alla «informazione dominante», cito la fonte.
L'Attivissimo che mi dice arricchito dai miei libri, cita una fonte che lo provi?
Forse Tavaroli gli ha fornito i dati del mio conto in banca?
Non credo.
La sua è, come tutte, un'illazione. Senza fondamento.
Certo è difficile ai lettori capire il valore della povertà deliberatamente accettata; la Chiesa non ne parla più.
Ma rivendico per me questo: io dalle mie scelte sono stato reso povero, mentre altri dalle loro, sono stati resi ricchi.
La mia, come ho detto, è una povertà relativa.
Ma fra i quattro invitati di Matrix ero certo il più povero.
I due europarlamamentari percepiscono in un mese e mezzo il mio reddito annuale.
Mentana, quanto varrà?
Mi par di ricordare, 500 mila euro annui: sedici anni del mio reddito.


Lo yacht di D'Alema vale 30 anni della mia pensione.
Bruno Vespa - l'ho saputo da fonte certa che non posso citare, ma non è un'illazione - gode di una pensione da 700 mila euro annuali, a cui si aggiungono gli emolumenti miliardari per la sua rubrica. E Magdi Allam?
Anche lui guadagna in un mese la mia pensione di un anno.
Ciampi, in un anno percepisce trent'anni e passa della mia pensione, non disprezzabile, frutto di 37 anni di lavoro e contributi.
Da ultimo poi, proprio per le mie prese di posizione sull'11 settembre, mi sono trovato contro cattolici che credevo amici.
Uno ha impedito a un autore di citarmi nelle note, come aveva avuto la bontà di fare, minacciando altrimenti di non far uscire i libri (ha un potere di questo genere sulla casa editrice: rendere Blondet una non-persona).
Un altro, scrittore famoso, ha preso le distanze non da oggi; evidentemente non vuole compromettersi con un condannato dalla psico-polizia.
Non gliene voglio.
Non ne voglio a nessuno.
Solo, faccio notare ai lettori che una cosa unisce questi personaggi: sono ricchissimi.
Miliardari.
E' questa causa della loro debolezza in un caso, o l'odio attivo che li anima nell'altro: Mammona. Chi dalle sue scelte è stato reso ricco, non dirà la verità fino al punto di diventare povero.
Specie di questi tempi, quando a ciascuno di noi viene messo quel segno, senza il quale «non si può vendere né comprare», è questo il discrimine.
Non si possono servire due padroni.
Il che vale (e chiudo) anche per David Icke.

Mi chiedono troppi lettori eccitati: ha letto Icke?
Dice le cose che dice lei.
No, non proprio: Icke prende qua e là da tutta la letteratura complottistica, a cominciare dai Protocolli dei Savi di Sion, e attribuisce il grande complotto ai «rettiliani».
Liberi i lettori di credere ai rettiliani, ma non mi chiedano il mio parere: è offensivo, come chiedere a un archeologo epigrafista, che si sforza di documentare ogni sua asserzione, cosa pensa del Segreto della Piramide, o se ha trovato le prove che Cheope era un extraterrestre.
Per me il lavoro di Icke entra nelle procedure, ben note ai servizi segreti, della manipolazione-screditamento: si tratta di screditare argomenti seri fingendo di promuoverli, ma mandando tutto in vacca aggiungendo qua e là un particolare demente.
Posso sbagliare, naturalmente.
Magari il personaggio è persino in buona fede.
Solo, vorrei notare due cose: nessuno ha mai chiesto di «far tacere» Icke, che pure prende per veri i «Protocolli dei Savi di Sion»; mentre tutti i giornali italiani, e diversi parlamentari (da Taradsh a Bondi), hanno imposto, gridato, urlato che bisogna chiudere la bocca a Blondet, che deve tacere, che deve essere bandito da tutti i media.
L'agente Betulla è stato difeso dal suo direttore; io, da nessuno.
L'altro dettaglio è che i libri di Icke si vendono molto, ma molto più dei miei.
Che rendono benissimo, che sono best-seller.
C'è qui un mistero non troppo oscuro: «Ai più piace il brutto», disse Sant'Agostino.
E ai «più», alla massa, a cui il brutto piace per natura più del bello, anche il falso piace più del vero, la finzione raffazzonata più della ricerca seriamente documentata.
Chissà perché.
Probabilmente, un miracolo di Mammona, il dio che ci possiede tutti.

Maurizio Blondet


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26.9.06

26 settembre 2006

La valigia del Duce

Poche tra le biografie ufficiali parlano della prima moglie di Albert Einstein, Mileva Maric, scienziata serba dalla forte personalità e dalla generosa indole, che la hanno spinta a sacrificare la sua vita e la sua intera carriera per amore della sua famiglia.Mileva nacque da una famiglia serba e benestante che le consentì di coltivare i suoi studi di scienza sino all'università. In quegli anni conobbe Nikola Tesla, che le presentò un suo collega, un fisico, Albert Eistein, che intraprese i suoi studi presso il Politecnico Federale svizzero, nello stesso periodo della Maric che era stata ammessa come unico studente donna. Si innamorarono, e cominciarono a frequentarsi, e la loro passione è testimoniata dalla corrispondenza privata di Eistein, la sola fonte di prova dell'esistenza della Maric in quanto gran parte dei documenti che la coinvolgevano sono stati distrutti.
Il loro amore "moderno" venne a lungo ostacolato dalla famiglia Eistein che vedevano in lei una donna troppo intelligente, indipendente, e non ebrea: il suo carattere avrebbe sicuramente oscurato quello del genio di Eistein. Nonostante questo, lei ha sempre difeso e sostenuto Albert, sostenendolo e finanziandolo mentre era ancora un giovane emergente: è pronta a sacrificare la sua carriera e i suoi studi quando all'improvviso scopre di essere incinta. La sua bambina, Liersel, le viene portata via, per nascondere la vergogna di quel gesto, e lo stesso Albert non cercò mai sua figlia: le tracce di Liersel si sono perse nell'etere, e molti hanno ritenuto opportuna crederla morte in tenera età. La sua scomparsa è stato un grande trauma, un grave giallo che ha segnato la vita della Maric e forse ha deviato gli eventi della storia dell'umanità. Lei diventa un disonore per la famiglia, un fallimento accademico, e madre di un bambino illegittimo, per cui decide di sottomettersi completamente al suo destino all'ombra di un uomo che doveva essere portato ai massimi livelli accademici.

Albert e Mileva si sposano in Municipio il 1903, e dal loro matrimonio sono nati non solo due bambini ma la straordinaria "teoria della Relatività", destinata a rinnegare le leggi della fisica classica e a portare sulla scena geopolitica una nuova fonte di energia. La relatività e l'energia nucleare non sarebbero state scoperte senza la base intuitiva di Mileva, che diede all'intera struttura teorica una sistematicità e una perfezione logica.
Recenti documenti hanno portato alla luce una diretta testimonianza della Maric, che dice ad un amico serbo, "abbiamo terminato un importante lavoro che farà mio marito il più famoso del mondo".
Le lettera private di Eistein Le lettera private di Eistein Le lettera private di Eistein
In molte lettere appartenenti alla corrispondenza privata di Einstein usano i pronomi "nostro" e "noi" in relazione a temi di fisica a cui lui stava lavorando mentre erano ancora studenti, per cui non ci sono dubbi che la coppia stava lavorando insieme su qualche argomento.


Una testimonianza autorevole di questa disputa fu del fisico sovietico, Abraham Joffe, un membro rispettato dell'Accademia sovietica che aveva accesso ai manoscritti originali del 1905. Joffe allora testimoniò di aver visto i documenti dello sviluppo della teoria della Relatività firmati con il nome Eistein-Marity.
La questione è stata a lungo discussa, in quanto la storia tramandata nega l'esistenza di questa firma attribuendo ad Einstein la totale paternità, ma il ritrovamento di alcuni documenti dimostrerebbe che loro siano stati coautori, o persino che l'unico vero autore sia Eistein-Marity, ossia Mileva che dopo il matrimonio aveva assunto il cognome del consorte accanto al suo, tradotto dal diritto svizzero come Marity. L'interrogativo sollevato è proprio questo: come poteva sapere Joffe che Mileva Maric prese il nome di Einstein-Marity, se il nome non fosse apparso sulle carte del 1905? Certificato di Morte MilevaDiversamente non poteva saperlo, perché Albert non la citava mai nelle sue lettere in questi termini, né esiste un costume svizzero che aggiunge automaticamente il nome di fanciulla di sua moglie a quello del marito; solo la donna usava accostare il cognome da nubile a quello del marito, e tra l'altro il certificato di morte e di Mileva cita esplicitamente "Einstein-Marity."
Perché la Commissione Nobel non diede il Premio ad Einstein per il suo lavoro su teoria di relatività? Forse perché lui non era il vero autore della teoria, e per nascondere questo deliberato furto, raggirarono la questione. Probabilmente Albert comprò il silenzio di Mileva, infatti lei concesse il divorzio per consentire il secondo matrimonio con Elsa solo a condizione che le avesse dato i soldi del premio che avrebbe percepito per le sue scoperte.

"Noi uomini siamo creature deplorabili, dipendenti. Ma comparati con queste donne, ognuno di noi è un re, si sostiene da solo su due piedi, mentre non aspetta fuori di lui continuamente qualche cosa a cui aggrapparsi. Loro aspettano sempre comunque, qualcuno da usare e manipolarlo per il loro adattamento. Se non accade questo, loro cadono semplicemente a pezzi."

Le prove portano sicuramente a dubitare del grande genio di Eistein, e molto probabilmente si può parlare di vero e proprio furto delle idee della Maric, più che di una collaborazione nascosta. Eistein era sicuramente in malafede perché acconsentì subito il trasferimento dei soldi alla Maric, con la stessa facilità con cui più volte denigrava sua moglie, definendola una "sua serva", a cui si rivolgeva sempre con indifferenza.
Mileva aveva dunque dato la sua vita per amore, credeva nella scienza e della nobiltà del suo utilizzo, ed era assolutamente contraria ai macabri sviluppi che Eistein stava portando avanti per compiacere i potenti che in quegli anni si preparavano alla seconda guerra mondiale. Chi ha portato Eistein in auge, sono gli stessi che hanno utilizzato l'antisemitismo per portare le nazioni alla guerra, gli stessi che finanziavano il piano di Hitler e nel frattempo agivano politicamente accanto ad America e Inghilterra.
Chi orchestrava la nascita dello Stato di Israele e la sua contemporanea distruzione, chi gestiva l'antisemismo e la resistenza, era la potente "Associazione dei trecento", creata nel 1729 dal BEIMC, British East India Merchant Company, per occuparsi degli affari bancari e commerciali internazionali, e conta i rappresentanti più importanti delle nazioni occidentali. I suoi fondatori erano i proprietari delle Compagnie delle Indie, delle flotte a carbone, una potente loggia dell'industria mineraria e commerciale del Benelux. Tra i componenti ricordiamo J. P.Morgan che fondò la Generale Electric Company, e una volta entrato in possesso del sapere di Tesla costruì un intero impero sulla scienza occultata.
Così mentre i Trecento finanziavano e perfezionare il nucleare, in Italia qualcosa di diversa si stava muovendo, qualcosa di così importante da far paura lo stesso Hitler e spingerlo a chiedere un'alleanza di non belligeranza a Mussolini. Il grande segreto di Mussolini era la scienza che era riuscito a sottrarre a Tesla grazie all'infiltrazione elegante di Marconi nel suo laboratorio di ricerca. Tra il 1882 e il 1888, Tesla brevettò dei dispositivi che utilizzavano dei campi magnetici per trasmettere l'elettricità a corrente alternata, la bobina Tesla, e poi il "radio telegrafo", come sistema di trasmissione dell'energia senza fili, ossia il wireless. Questo sistema non ha un limite di quantità e di distanza nella trasmissione di energia per via dell'obliquità dell'atmosfera, come invece affermava la teoria della relatività. La perversione della mente umana vide a quel punto il terribile utilizzo che si poteva fare di una fonte di energia così potente da poter riprodurre l'energia di un fulmine. L'Italia tenne allora ben stretti quei progetti perché sicuramente su di essi poteva costruire il segreto su quella tecnologia.

La Seconda Guerra Mondiale è stata la guerra dell'Energia, vedendo nazioni e grandi colossi nazionali scontrarsi tra di loro per decretare il prevalere dell'una o dell'altro fonte di energia: la storia dimostra che Mussolini perse la sua guerra, e il nucleare è entrato nella nostra vita come soluzione al fabbisogno energetico. Nessuno capì allora, e nessuno capirà oggi la grande opportunità che l'Italia perse, oggi come allora, per conquistare la sua indipendenza.
Il suo vero obiettivo era di assicurarsi il controllo della futura elettrificazione dell'America, prima, e del resto del mondo dopo, e per far questo occorre impiantare dei sistemi che finanziano prima i suoi concorrenti, per rendendo il prezzo del cambiamento del sistema energetico proibitivo.

La guerra del futuro sarà ancora questo, ma a tutti sembrerà la guerra delle religioni, lo scontro di civiltà, alimentato solo per camuffare il vero piano, che è sempre quello di Hitler, ora in mano alle Banche mondializzate.
Nel nostro futuro le strade e le rotte aeree smetteranno semplicemente di esistere, così come la costruzione dei ponti, dei palazzi, ecc. Il trasposto avverrà mediante l'annichilimento indotto del peso. Avremo un significativo progresso nella ricerca della crescita dei vegetali, delle tecniche terapeutiche, dei sistemi di riscaldamento senza combustibile, nuove fonti di energia per l'industria, una branca della chimica sarà totalmente nuova. Esiste infatti nell'etere una specie insospettata di onde elettriche identiche alle onde elettromagnetiche della radio. Sono onde elettrogravitazionali, prodotte ed emesse attraverso degli strati concentrici costituiti da materiali ad induzione elettromagnetica ed elettrostatica, senza nessuna perdita apparente di potenziale energetico.

La nuova energia è già esistente, e l'arma di Tesla viene esperimentata attualmente dai Russi, considerando che il Kgb ha assoldati ricercatori e scienziati proveniente da ogni parte del mondo che conoscessero la Teoria di Tesla. I nostri nemici oggi, ossia gli Stati in mano alle Banche, già da tempo stanno conducendo strani e pericolosi esperimenti sulle popolazioni, onde verificarne la portata distruttiva, soprattutto delle capacità intellettive. Si pensi ad esempio all'Iraq, è davvero sbalorditivo come abbiano spinto un intero popolo ad accettare l'invasione americana, e come abbiano dato l'impressione al popolo che il problema fosse dentro di no, invece specifiche armi fisico-chimiche hanno provocato una capitolazione improvvisa e massiccia.

Potremmo continuare delle ore per descrivere cosa stanno facendo alla nostra vita, ma siamo convinti che determinati aspetti non possono essere compresi perché il sistema ha chiuso loro la mente, con armi invisibili, ma esistenti che vanno al di là delle parole.


http://etleboro.blogspot.com

20.9.06

Osama e altre docu-fiction
Maurizio Blondet
19/09/2006

«Al Qaeda minaccia il Papa».
Tutti i giornali italiani hanno lo stesso titolo cubitale, e la stessa certezza: è proprio «Al Qaeda» che minaccia Roma e il Papa.
Anche se il proclama è apparso su un blog della Google, anonimo e in lingua inglese, ospitato da un server USA. (1)
Un complottismo ufficiale massiccio e corale, una voluttà di paranoia, di alimentare odio e paura irrazionale.
Tutti arruolati volontari nella maligna «guerra della percezione», che è la vera guerra in corso.
Dietro questa nube psichica, sarà probabilmente inutile ricordare le realtà di fatto.
Ma ci proviamo, instancabili.


Va ricordato dov’era Osama bin Laden l’11 settembre 2001, il giorno del mega-attentato che ha ottenebrato l’Occidente.
Era a Rawalpindi, città di 1,5 milioni di abitanti, in un ospedale militare pakistano, per sottoporsi a dialisi.
E non lo raccontò un complottista.
Lo spiegò Dan Rather, l’anchorman della catena televisiva CBS, il 28 gennaio 2002. (2)
Quella sera, Dan Rather annunciò lo «scoop esclusivo», e diede subito la parola all’inviato Barry Petersen, che era in Pakistan.
«CBS News ha saputo che la notte prime dell’11 settembre, Osama bin Laden era in Pakistan. Stava ricevendo trattamento medico con l’assistenza di quello stesso apparato militare che qualche giorno dopo assicurò di sostenere gli USA nella guerra al terrorismo in Afghanistan».
Sul video appare l’ospedale militare di Rawalpindi, poi un’infermiera di spalle.
«Questa dipendente sanitaria, la cui identità deve essere protetta, dice che quella notte tutto il normale personale del reparto urologia è stato mandato via, e sostituito da un gruppo segreto. Dice che c’era da curare una persona molto speciale».


Appare un altro interlocutore, col volto coperto: «I militari lo circondavano, dice questo impiegato dell’ospedale che, anch’egli, non vuole essere riconosciuto: ‘Ho visto il paziente misterioso mentre scendeva, sorretto, da un’auto. In seguito ho visto molte immagini di quest’uomo: è colui che conosciamo come Osama bin Laden. Ho sentito due ufficiali che, parlando fra loro, dicevano che Osama bin Laden andava curato e sorvegliato attentamente».
Seguiva una spiegazione delle «numerose malattie» del capo terrorista, «problemi gastrici e della spina dorsale» oltre alla grave insufficienza renale.
Petersen: «I medici dell’ospedale negano che quella sera [il 10 settembre] sia avvenuto qualcosa di speciale, ma rifiutano di farci vedere, come abbiamo chiesto, i registri di ricovero. Il governo ha smentito che bin Laden abbia ricevuto cure ospedaliere quella notte».
Voce fuori campo: «Il presidente pakistano Musharraf ha dichiarato che bin Laden soffre di affezioni renali, e che secondo lui è moribondo. Il più recente video mostra un bin Laden pallido e debole, che non muove il braccio sinistro».
Poi l’immagine del ministro Donald Rumsfeld mentre dice: «Per quanto riguarda la salute di Osama bin Laden non ne ho alcuna conoscenza».
Petersen, ironico: «Gli Stati Uniti non hanno modo di sapere chi, nell’apparato militare o di spionaggio pakistano, aiutava bin Laden anche la notte prima dell’11 settembre, fornendogli la dialisi per tenerlo vivo. Dunque gli Stati Uniti non sanno se queste stesse persone non lo stiano aiutando a restare libero».
Cinque anni sono passati da questo scoop.


L’ultima illazione su dove si trovi Bin Laden è apparsa, il 9 settembre 2006, su un giornale australiano, lo Hobart Mercury: «La maggior parte degli analisti d’intelligence sono certi che Osama si nasconda da qualche parte al confine tra Afghanistan e il Pakistan. Negli ultimi tempi è stato detto che egli si trova probabilmente nell’Hindu Kush, nell’area tribale di Chitral, sotto il monte Tirich Mir, alto 7.700 metri…».
Un alpinista estremo: niente male per un malato grave, bisognoso di dialisi settimanale.
O forse nel Waziristan ha ricevuto un trapianto ed ora scoppia di salute.
Che la fonte di questa «notizia» sia la cosiddetta intelligence americana non c’è dubbio.
Il Balochistan Times, il 23 aprile 2006, ha citato una frase di Bush sulla difficoltà di catturare Osama.
Il nemico, ha detto il presidente, «si trova in un’area estremamente montuosa e assolutamente inaccessibile, con montagne altre da 3 a 4 mila metri».
E non ci sono «infrastrutture di comunicazione in grado di rintracciarlo» (sic).
Non è opportuno ricordare - e infatti i media se ne guardano bene - che Bush fu vicinissimo a catturare Osama nel novembre 2001, a Tora Bora, dopo che i B-52 avevano bombardato a tappeto la zona definita «l’ultima ridotta di Osama»; un commando americano aspettava solo l’ordine. L’ordine non venne.
Oggi, invece, nel quinto anniversario, uno speciale della ABC dal titolo «The path to 9/11» («verso l’11 settembre»), ha dimostrato, diciamo così, che fu Clinton a lasciar scappare l’arcinemico: «troppo occupato con la scandalo Levinsky per combattere il terrorismo».
Questo speciale è stato confezionato con spezzoni autentici e sequenze inventate, da telenovela: il nuovo genere della docu-fiction, «finzione-documentazione».
La docu-fiction è l’arma segreta della guerra di percezione in corso.


Per il quinto anniversario, vari film sono stati preparati per confermare psichicamente la versione ufficiale pericolante, dal film di Oliver Stone sui pompieri delle Twin Towers a «United 93», che ha ricostruito fantasticamente «l’eroica resistenza» dei passeggeri contro i terroristi (armati di taglierino).
Non hanno successo di botteghino, ma non importa: servono a «passare» a spezzoni sul piccolo schermo, come sfondo delle ricostruzioni e dibattiti sull’11 settembre.
E’ successo a Matrix, succederà ancora: è il mezzo per «saturare psichicamente», con immagini «vere» e false, il pubblico che fosse tentato di dubitare della «verità».
Lo scoop della CBS del 28 gennaio 2002 viene così cancellato dalle memorie corte.
Quella scoperta giornalistica risale a un tempo in cui ancora il giornalismo poteva cercare in modo autonomo i fatti, e in cui la docu-fiction non aveva del tutto chiuso ogni spiraglio.
Quel tempo è finito.
Nel convegno alternativo sull’11 settembre a Bologna, Giulietto Chiesa ha riferito a questo proposito di un episodio agghiacciante. (3)
Il parlamentare europeo ha raccontato come, pochi giorni prima, fosse stato invitato dalla commissione Difesa della UE ad assistere - così era letteralmente scritto sull’invito - al «filmato che simula un attacco nucleare terroristico su Bruxelles».
Un vero e proprio film, ha detto Chiesa, costruito come un reportage «dal vivo».
Completo di tutto: le facce note della CNN che annunciavano l’orribile attacco sulla capitale eurocratica, la notizia ripetuta da Al Jazeera e da tutti i network, le reazioni internazionali con l’apparizione dei veri capi politici di oggi, le affannate tavole rotonde con «esperti» reali…intanto, minuto per minuto, andavano immagini satellitari che mostravano lo spostarsi della nube radioattiva, portata inesorabilmente dal vento ad espandersi sull’Europa del nord.


Non mancava nemmeno la rivendicazione: il «vero» Osama bin Laden rivendicava il lancio dell’atomica in arabo, con sottotitoli in inglese, nel solito video «fatto recapitare ad Al Jazeera».
Sbalordito, Chiesa ha chiesto «chi» avesse pagato per una simile produzione video, evidentemente costosa.
Era stata fatta coi soldi dei contribuenti?
No, è stata la tranquillizzante risposta: si è trattato di un «regalo».
Offerto dal CSIS, il Center for Strategic and International Studies di Washington, un think-tank correntemente ritenuto emanazione della CIA.
Un «regalo» del tutto equivalente a una testa di cane troncata, quale la mafia suole recapitare alle sue vittime designate.
Una minaccia.


Vale la pena di analizzare il messaggio contenuto in quel regalo del CSIS all’Europa.
Esso dice tre cose:
1 - Possiamo farvi questo - tirare una bomba atomica su Bruxelles - e abbiamo i mezzi per addossarne la colpa ad «Al Qaeda».
2 - Di più: possiamo convincere la vostra popolazione che è stato Osama, e non noi.
3 - Come vedete, abbiamo già preparato gli spezzoni della «atroce realtà» che i vostri telegiornali manderanno in onda se e quando la cosa avverrà, come materiale autentico, giornalismo puro, pura documentazione. Chi dubiterà del video di Osama?
Può avvenire davvero, se l’Europa continua a resistere a partecipare alla «long war».
Come dice Israel Singer, «non crediate di essere immuni» dal terrorismo.
Questa è la nuova realtà in cui siamo entrati.
E’ in corso una guerra vera e spaventosa, in Afghanistan, Iraq e Libano (e presto in Iran e Siria) con autentiche bombe e vere distruzioni e stragi.
Ed è in atto una «guerre della percezione», in Occidente.
Le bombe vere sono per gli islamici.
Ma il bombardamento psichico è diretto contro voi e noi, i loro nemici più temuti.
La guerra è contro di noi, e il nemico vero è il nostro principale alleato.
Armato di immagini digitali, che possono essere mescolate e fatte apparire vere. (4)


Ma non basta.
Il nemico strategico, quello che compie gli attentati false flag contro di noi per poter continuare a bombardare gli altri, ha un alleato primario: non solo i direttori dei media che volontariamente, con mezza-coscienza, diffondono la docu-fiction come fosse vera; ma soprattutto il pubblico occidentale, con la sua enorme, invincibile ignoranza e passività.
E’ questo pubblico che beve tutto, perché non si occupa di nulla.
Questo pubblico convinto al 30 %, come ha rivelato un sondaggio inglese, che il nome dell’attuale governatore della California sia Conan il Barbaro: il pubblico incapace di distinguere tra giornalismo e fiction.
Su questo colossale ignorante collettivo si basano i malvagi; da esso traggono la loro forza.
«Libero» dedica al sottoscritto una colonna: «Blondet cittadino onorario di Eurabia».
Presto, vedrete, arriverà la prova: Blondet o Chiesa che stringono la mano al «vero» Osama bin Laden, lassù sull’Hindu Kush ; miracolo che l’elettronica digitale rende possibile, e di cui l’agente Betulla è in posizione di ottenere l’esclusiva.
Perché questo, in fondo, è il movente vero che induce tanti «giornalisti» ad arruolarsi volontari nel sistema della menzogna: l’opportunità, con la scusa legittimante di battere il terrorismo, di colpire i colleghi, di prendersi delle piccole, meschine, vendette interne, di nuocere ed insultare i conoscenti.
Di fare una piccola ripugnante guerra civile nella tragedia globale, come quei «partigiani»
Che, durante la resistenza, approfittarono per ammazzare il vicino di casa invidiato, derubarlo, violarne la moglie.


E’ questa bava d’odio che spiega tutto: anche la volontà evidente di credere alla menzogna incredibile.
Un «filosofo cattolico», di cui abbiamo commesso l’errore in passato di pubblicare qualche articolo credendolo ancora filosofo e cattolico, ha mandato all’editore una mail che plaude al Papa e al suo infortunio con questa motivazione: «Ha finalmente detto la verità sulla merda Maometto».
Uno schizzo di merda.
Un rigurgito acido di bile pura, gratuita.
E se così «pensa» un «filosofo», è inutile lottare per la verità.
Oggi, si è «cattolici» per poter odiare i musulmani meglio, sull’esempio della cristiana Fallaci, che si è fatta seppellire in terra sconsacrata.
Non vi è alcuna fede.
E’ il bisogno collettivo di odiare, di nuocere, che finalmente può liberarsi, che con la scusa della cristianità in pericolo ha trovato il bersaglio.
Su Avvenire, appare un fondo, che difende il diritto del Papa a dire quel che ha detto sull’Islam (e che il Papa nega di aver detto con intenzione di odio).
L’ho conosciuto questo il firmatario; brava persona.
Ai tempi dell’invasione USA all’Iraq, ci comunicò che aveva portato via la famiglia da Roma, temendo una pioggia degli Scud di Saddam: ignaro, in buona fede, che la gittata di quei vecchi missili è di 300 chilometri, e non certo intercontinentale.
Come lui sono tanti.
Pronti a credere alla docu-fiction, se un giorno «Osama» lancerà una bomba atomica su Bruxelles. La guerra della percezione li trova già pronti: nella parte di vittime e di collaboratori insieme.


Nessuno si chiederà perchè mai, a quale scopo strategico, Al Qaeda dovrebbe sprecare un’atomica (non deve averne tante) su una capitale europea, anziché sugli USA o Israele: e non se lo chiederà: perché tutti, in fondo, «vogliono» crederci.
La docu-fiction ha la sua grande giornata; ma senza l’odio e la meschinità omicida dei piccoli non avrebbe tanta forza.
Il Papa farebbe bene a pensare su questo fenomeno, assai più pericoloso dell’Islam.
Ma cosa sa il Vaticano della modernità e dei suoi trucchi?
Ha mandato via Navarro Valls e l’ha sostituito con un gesuita, definito giornalista in quanto direttore di una rivista bimestrale; ma Al Jazeera diffondeva le parole papali in ogni angolo dell’Islam già dopo cinque minuti.
Quanto al segretario di Stato che s’è scelto, Tarcisio Bertone, è una brava persona: che a quanto pare non conosce alcuna lingua, e la cui vera passione sono le partite di calcio, che commentava da «giornalista» sul giornale della CEI.
C’è da stupirsi che il Papa sia stato involontario strumento della «guerra di percezione» totale in corso, subito usato e manipolato?
E’ la vecchia storia dei buoni: candidi come colombe, e incapaci di essere accorti come serpenti.
O ancor più, questa: che l’Anticristo «farà prodigi tali da sedurre, se possibile, perfino gli eletti».
Questa profezia si è avverata sotto i nostri occhi.

Maurizio Blondet


Note
1)
Il blog, come segnala Miguel Martinez sul suo sito (kelebek. splinder.com), è ospitato su Blogspot che ha il seguente «registrant»: Google Inc. (DOM-345046) 1600 Amphitheatre Parkway Mountain View CA 94043 USA. Commenta Martinez: «il blog, pieno di affermazioni come ‘Shaykh Oussama Ben Laden may Allah protect him’ e improbabili rivendicazioni (solo nel comunicato di oggi, sostengono di aver ucciso più di diciassette americani in un solo attentato), sta felicemente sul server di Google. E quel server si trova in un Paese in cui il minimo sospetto di ‘terrorismo’ porta in luoghi segreti di detenzione senza processo. E che ha i migliori esperti di computer del mondo, in grado di scoprire la provenienza di qualunque ‘upload’ a un sito». Il blog non è che sta lì da ieri mattina. Sta lì da marzo, come si può vedere dagli archivi. Insomma, l’immenso apparato di sicurezza statunitense, che controlla anche i libri che la gente prende in prestito in biblioteca, ha avuto mezzo anno per scrivere quantomeno una rispettosa richiesta al signor Google perché tolga il blog. E invece niente. Questo improbabile blog, scritto - a differenza di quasi tutto il materiale jihadista - in lingua inglese, lancia le seguenti minacce alla nostra enologia, che citiamo in inglese per il divertimento dei nostri lettori: «We say to the cross worshiper [the Pope]: Both you and the Romans, be awaited for the defeat as you see what happens everyday in Iraq, Afghanistan and Shishan etc…, and we are waiting for victory, martyrdom, triumph, enabling and Caliphate (Islamic state) which judges by the law of Allah, then we will break the cross, shed the wine and we wont accept Giziya (Islam or Death), Allah will give Muslims the victory in their war against the Romans and their final capital Rome like his Prophet Mohammed - peace upon him - has promised in the right Hadith and as we were the victorious when we conquered Istanbul in the past». Ah, dicono pure che ci fregheranno i soldi e i bambini: «O Allah return their cunning on them, destroy them, enable us of their necks and make them with their money and children a booty for the Mujahedeen by your strength O the Almighty…». Come noto, dopo l’11 settembre Al Qaeda non ha più commesso alcun attentato sicuramente attribuibile a questa organizzazione; in compenso si è riconvertita in una casa di produzione di video di successo. E i suoi video vengono diffusi dalla IntelCenter, una ditta americana che è una filiale della Tempest Publishing Co. - la quale a sua volta produce manuali e DVD «educativi» sulle minacce terroristiche (chimico-biologiche-nucleari) per conto di clienti come la US Army, la Us air force, l’USAMRIID (il laboratorio militare da cui uscì il famoso antrace), e il Lawrence Livermore, il laboratorio da cui uscì la prima bomba atomica. Insomma un centro di pura propaganda, una fabbrica di «percezione».
2) Michel Chossudovsky, «Where was Osama on september 11, 2001?!», GlobalResearch, 9 settembre 2006.
3) Il convegno di Bologna, con illuminanti video di Massimo Mazzucco e la partecipazione di personalità americane che smentiscono la versione ufficiale sul’11 settembre, ha avuto 700 spettatori paganti: un successo senza precedenti in Italia. Nel corso del convegno si sono poste le basi - su richiesta dei relatori americani - per costituire una commissione di personalità europee indipendente, una sorta di Tribunale Russel, che esamini la questione 11 settembre e specialmente gli indizi a contrario fin qui raccolti.
4) Nel 1997 fu prodotto il film «Wag the Dog», in italiano «Sesso e Potere», con Robert De Niro e Dustin Hoffman: mostrava come per salvare il presidente da uno scandalo sessuale, il servizio segreto organizzava una guerra contro l’Albania. Guerra del tutto virtuale, prodotta con immagini digitali. La scena principale, infinitamente ripetuta dai network, mostrava una contadinella albanese che scappava dalla sua casa in fiamme abbracciando un tenero gattino. Il gattino veniva continuamente modificato elettronicamente: prima un soriano, poi bianco, poi maculato.


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