22.12.06

L’attacco all’Iran, dopotutto, si farà
Maurizio Blondet
18/12/2006
Il membro del Likud al parlamento israeliano Juval Steinitz

«Sono convinto che gli USA attaccheranno l'Iran per distruggere la sua capacità nucleare, essendo fallita la diplomazia. Salveranno il mondo. Bush e Blair hanno questa missione storica».
Sono parole pronunciate da Juval Steinitz, membro del Likud al parlamento israeliano.
Parole rivelatrici per molti versi: a proposito delle elezioni anticipate che Abbas vuol indire a Gaza, per detronizzare Hamas e per cui rischia la guerra civile nel suo piccolo popolo, Steinitz ha chiarito: «Nessuna elezione cambierà la natura dell'Autorità Palestinese come entità terrorista».
Dunque Giuda non tratterà con Abbas, come non ha trattato con Hamas. (1)
Specie sul primo punto Steinitz è ben informato.
A Washington, seppellito il rapporto Baker (che invita a trattare con l'Iran per aggiustare in qualche modo il disastro american in Iraq), avanza a passi rapidi la soluzione della «fuga in avanti»: per salvare l'Iraq, estendere il conflitto all'Iran.
Bush e Cheney hanno, per questo progetto, l'appoggio dei democratici, opportunamente ammaestrati dalla lobby.
«Israele è ossessionato dall'Iran», scrive Arnaud De Borchgrave, già direttore ed ora editorialista del Washington Times: «Un'acuta anche se comprensibile paranoia ha rimpiazzato il discorso razionale. Il Libano è stato un disastro per Israele e l'Iraq un disastro per l'America. Qualche indovino politico a Washington sta profetando che il presidente Bush si prepara da contorsionista a fare la più straordinaria svolta ad U della sua vita politica. Non ci contate. I francesi hanno una frase per dipingere quello che ci attende: 'la fuite en avant'. All'ingrosso, significa sfuggire da un problema cacciandosi in un altro». (2)
Da Bruxelles a Berlino, da Teheran a Damasco, non si parla d'altro che dell'America come il gigante dai piedi d'argilla, come tigre di carta, dice De Bortchgrave. «Questo è precisamente il motivo per cui il presidente Bush non accetta il rapporto Baker-Hamilton. Il presidente Bush vede se stesso come la figura di Winston Churchill, che solitario tuonava negli anni '30 contro i colleghi sonnolenti che facevano concessioni ad Hitler».
Per intanto, con il forte appoggio della maggioranza democratica, Bush manderà altri 30 mila uomini in Iraq.
Sordo ai pochi che chiamano questo «la ricetta per il disastro», che può portare alla «dissolution of the American empire».
Sicuramente 30 mila soldati USA in più non modificheranno il caos iracheno, anzi affonderanno ancor più il prestigio americano nel fango.


Ma questo conferma, semplicemente, che la classe (israelita o neocon) al potere oggi a Washington non persegue il prestigio americano, né tantomeno ha in mente la stabilizzazione di un Iraq democratico e vivibile.
Ciò che perseguono - sull'esempio israeliano - è il caos in sè, e la sua estensione sanguinosa all'intero mondo islamico.
Ciò che tutti credono una disfatta, è ciò precisamente che loro definiscono il successo.
Inutilmente il generale Peter Chiarelli, che sta per prendere il comando delle operazioni in Iraq, ha espresso ad altissima voce che la mera guerra e il massacro di guerriglieri veri o presunti non porta ad alcuna vittoria.
«Se non si tenta di reintegrarli nella società», in una società che dia lavoro e sviluppo. (3)
Israele sa che, con lavoro e sviluppo e gli introiti petroliferi, anche un Iraq democratico diverrebbe presto troppo potente per i suoi gusti; dunque, sia il caos eterno.
Invano il generale John Abizaid, comandante delle forze USA in Medio Oriente, si oppone ad un rinforzo delle truppe, e consiglia di spendere invece più soldi e più efficienza nello sforzo di ricostruzione economica e civile nel Paese occupato, per sottrarre i giovani iracheni all'unica scelta oggi loro possibile, imbracciare il kalashnikov.
La Casa Bianca «sceglie» i suoi consiglieri, come ieri scelse l'intelligence falsa che dava le scuse per attaccare Saddam.
Il generale a riposo John Keane ha già allestito per Bush il piano di aumento delle truppe occupanti: un piano che ha stilato insieme all'ebreo Frederick Kagan, l'analista militare dell'American Enterprise - le centrale neocon che progettò l'invasione dell'Iraq e la definì «una passeggiata».
Il generale Chuck Wald (ebreo) e il generale Chuck Vollmer (idem) hanno allestito un rapporto gradito alla Casa Bianca, in cui si legge: «La prossima fase dell'operazione Iraqi Freedom potrebbe comprendere una importante invasione dell'Iran e delle forze pro-iraniane contro le forze occidentali nella regione e contro Israele, e una conseguente crisi energetica globale. Anziché pianificare il ritiro dall'Iraq, meglio pianificare il riposizionamento in quest'area strategicamente importante. Può essere necessario ritirarsi dall'Iraq; ma il ritiro dalla regione precipiterebbe una crisi globale con uno sbilanciamento delle forze (balance of power) a favore dell'asse Iran-Russia-Cina, dannoso per l'indipendenza energetica dell'Occidente». (4)


Tanto per far capire quanto si estenderà la fuga in avanti: Russia e Cina vengono comprese inopinatamente nell'asse del male a fianco dell'Iran.
Questi sono i prossimi nemici additati ad una superpotenza che ha già il fiato grosso e sta perdendo in Iraq e in Afghanistan.
E' precisamente la paranoia israeliana: se Hezbollah ci ha sconfitto, è perché lo ha aiutato l'Iran, dunque attacchiamo l'Iran.
Se in Iraq siamo nel pantano, è colpa della Cina e della Russia…
E' l'indicazione di una pseudo-strategia, come nota Dedefensa, che nasce da menti «segnate dal disordine» psichico a Washington, e «rinforzate in modo ossessivo da Tel Aviv, dove si vive l'atmosfera della disfatta e insieme l'ossessione della risposta». (5)
Il senso di aver perduto, a Washington come in Israele, porta «incontrollabilmente» a sognare una rivincita totale, onnipotente - di quel delirio di onnipotenza proprio delle menti narcististiche.
Il para-sillogismo che li domina è: noi siamo invincibili.
Se non vinciamo, è solo perché non abbiamo usato tutta la forza di cui disponiamo; per vincere, occorre più guerra e più violenza.
Al fondo, sta la tentazione atomica.
«L'atto dell'attacco all'Iran può apparire ogni giorno di più come il deus ex machina che annullerebbe l'Iran, il diabolus ex machina a cui si attribuisce il blocco della situazione in Iraq… il nemico finale la cui distruzione [è vissuta] come la catarsi sognata».
Anche De Borchgrave avvicina lo stato d'animo dominante a Washington e a Tel Aviv a quello del giocatore d'azzardo che, perso tutto alla roulette, si fa prestare le somme per raddoppiare la posta, sperando di rifarsi.
La metafora è più stringente di quanto appaia.
Basti pensare che l'America sta facendo sostanzialmente la guerra con i soldi del creditore, la Cina, e che i suoi soldati marciano con scarponi Made in China.


La potenza industriale americana, che vinse nella seconda guerra mondiale, è sparita nelle delocalizzazioni; quello che sogna la grande vittoria mondiale è un Paese pesantemente de-industrializzato, che importa tutto, incapace di reggere lo sforzo e il sacrificio di un lungo e vasto conflitto.
Basti considerare che i rifornimenti degli americani a Baghad arrivano da Bassora, lungo una strada controllata già oggi dai 60 mila guerriglieri sciiti di Muktada al-Sadra.
Un percorso che in caso di attacco all'Iran diverrebbe - dice qualche generale americano - «una galleria di tiro a segno lunga 800 chilometri».
Ma ciò che è un incubo per i generali sul terreno, è un sogno possibile per i deliranti di Washington e Tel Aviv.
Tanto peggio tanto meglio.
L'attacco all'Iran, forse dopotutto, si farà.

Maurizio Blondet


Note
1) Anat Bereshkobsky, «Steinitz estimates: US will attack Iran», Ynet.news, 16 dicembre 2006.
2) Arnaud De Borchgrave, «Watching America», UPI, 12 dicembre 2006.
3) John Burns, «US general says jobs and services may curb Iraq violence», New York Times, 13 dicembre 2006.
4) Justin Raimondo, «The urge to surge», Antiwar.com, 15 dicembre 2006.
5) «La thèse de la fuite en avant», Dedefensa, 14 dicembre 2006.




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7.12.06

Usa: comincia la discesa
Maurizio Blondet
09/11/2006

STATI UNITI - «Lavoriamo insieme per l’Iraq», ha subito detto Nancy Pelosi, nuova speaker democratica alla Camera bassa, rivolta ai repubblicani.
D’altra parte, ha vinto Joe Lieberman in Connecticut, cacciato dagli elettori democratici, ma imposto dalla nota lobby.
E Bush resta dov’è fino al 2008; dunque non cambia niente.
Nancy Pelosi ha sempre sostenuto le guerre e le posizioni più dure dei neocon.
Lieberman, ebreo super-falco, diverrà ministro della Difesa al posto di Rumsfeld.
Le guerre per Israele continueranno.
Solo «dopo» questo voto gli americani si renderanno conto che, per Israele, l’America si sta suicidando, quando ormai sarà tardi per cambiare le cose.
Mai nella storia gli Stati Uniti sono stati più screditati e ridicolizzati sul piano internazionale, privi di autorità morale e persino di credibilità militare.
Il 64 % degli inglesi (inglesi!) ritiene Bush più pericoloso per la sicurezza del mondo che Bin Laden.
Dissanguata nelle guerre per Israele - che i suoi generali nemmeno sanno concludere, come i mediocri giocatori di scacchi incapaci di dare il matto - l’America sta perdendo potere persino nel suo cortile di casa imperiale: l’«ondata Chavez» non accenna ad esaurirsi: in Brasile ha trionfato Lula, in Nicaragua è stato rieletto il sandinista Daniel Ortega.
In Bolivia (Bolivia!) Evo Morales ha intimato un ultimatum alle petrolifere americane: hanno sei mesi per rinegoziare i contratti di sfruttamento, altrimenti i loro impianti saranno confiscati.
Un ritorno sugli investimenti del 15-18 % è quello giusto per le compagnie, ha detto Morales, il resto deve andare al popolo boliviano.


In altri tempi, la CIA avrebbe fatto l’inferno per stroncare questa, come chiamarla?, rivolta castrista del Sudamerica: oggi non può.
Le guerre per Israele succhiano tutte le risorse, il morale e la capacità combattiva delle forze armate sono a terra, la sua capacità di intimidazione è annullata.
Russia e Cina sono sempre più salde in un’alleanza militare.
Mosca ha deciso di connettere la sua rete ferroviaria a quella dell’Iran, segnale evidente di una collaborazione commerciale e militare (sui pianali si portano armamenti pesanti) di proporzioni storiche. (1)
E’ un altro colpo mortale al prestigio dell’America e al suo dominio imperiale.
Molti, troppi americani hanno votato repubblicano perché ammansiti dal ribasso di 80 cents di benzina alla pompa.
Dai prossimi giorni, Goldman Sachs, l’autrice del ribasso artificiale, smetterà la manipolazione elettorale dei prezzi, e il petrolio risalirà.
Ciò farà ribassare ulteriormente il dollaro (2), riducendo il potere d’acquisto dei consumatori: che sono il vero motore del «miracolo economico» americano.
Ma poiché la classe media ha visto solo scendere i suoi salari reali da almeno cinque anni, per consumare ha estratto soldi dalle sue case di proprietà: ipotecandole, nell’euforia creata dai prezzi immobiliari crescenti.
Fra marzo 2005 e marzo 2006, gli americani hanno succhiato dalla loro proprietà 825 miliardi di dollari, che hanno speso in oggetti voluttuari e non durevoli, schermi piatti, carabattole e vestiario cinesi, auto nuove, tutto di tutto.

Ora, resta il debito, quegli 825 miliardi, da ripagare.
E la bolla immobiliare si sta sgonfiando.
Le case ipotecate per un valore 100, valgono già 90, e presto 80 e 70.
In un’America deindustrializzata, l’edilizia fornisce il 10 % del prodotto interno lordo. (3)
Ed ora è ferma e sta calando la costruzione di nuove case, con effetti prevedibili su tutto l’indotto, dai legnami alle tubature, dagli impianti elettrici ai mattoni.
Il «miracolo» americano, retto sul consumo voluttuario, era già di per sé illusorio: nel secondo quadrimestre il PIL USA è cresciuto di un minuscolo 1,6 % - una crescita pari a quella dell’Italia di Prodi - e quel che è peggio, gran parte di questa crescita è dovuta al fatto che le industrie di auto USA, alla disperata, mentre licenziano i lavoratori, vendono le loro auto interamente a rate senza anticipo: anzi sono loro ad anticipare - incredibile dictu - 3 mila dollari a chi l’acquista: il che ha indotto milioni di latinos e immigrati senza un soldo a comprarsi l’auto nuova, non tanto per l’auto quanto per avere in tasca 3 mila dollari in contanti: cifra che non hanno mai visto in vita loro.
E che certo non saranno in grado di ripagare.
Ma tutto in USA gira così, in una girandola di insolvenza.
Le banche fanno prestiti senza chiedere anticipi né garanzie: ciò ha attratto debitori che non avranno mai i mezzi per restituire.
Il tutto, grazie a tassi d’interesse bassissimi.


Ma questa situazione ha reso paralitica la Federal Reserve: fino ad oggi, il dollaro è stato tenuto su (o frenato nella caduta) da tassi sui Buoni del Tesoro USA più alti, relativamente ai BOT europei. Ora l’Europa, e persino la Banca Centrale elvetica, hanno aumentato i loro tassi.
Il differenziale che rende i BOT americani apparentemente più convenienti, si assottiglia.
La FED dovrebbe rialzare i tassi; ma se lo fa destina alla rovina decine di milioni di americani indebitati, che sarebbero schiacciati dagli interessi passivi crescenti.
Un vicolo cieco.
Il trucco dei consumi a credito, sussidiati per di più, sta per finire.
Ora, la tendenza sta per invertirsi: comincia il «rallentamento», che i grandi media bugiardi non chiameranno con il suo vero nome, «recessione».
Le multinazionali e tutte le altre imprese, quando i consumatori consumeranno meno, investiranno meno in impianti, per ridurre l’invenduto; metteranno i loro profitti (immensi negli anni scorsi) nell’improduttivo riacquisto di azioni proprie, per sostenerne i corsi.
I media bugiardi grideranno, esultanti, che la Borsa sale, dunque l’economia fiorisce…


La realtà di questa fioritura sta tutta in due cifre: 30 milioni di dollari, e 80 milioni di dollari.
La prima - 30 milioni di dollari - è quanto la Cina incamera ogni ora in valuta estera (dollari per lo più) grazie alle sue esportazioni.
La seconda - 80 milioni di dollari - è quanto il capitale nazionale americano perde ogni ora.
Gli Stati Uniti stanno dissanguandosi in un’emorragia tragica; presto i capitali disponibili non saranno abbastanza per innescare una qualunque ripresa.
L’America si suicida, rimpicciolisce di 80 milioni di dollari l’ora, mentre Pechino cresce di 30 milioni l’ora.
La Cina dispone ormai di oltre un trilione di dollari in riserve.
Con quei dollari, potrebbe comprare tutti i terreni fertili degli Stati Uniti.
O un terzo del capitale azionario americano; oppure quote di controllo in ogni singola azienda americana.
Se lo facesse, i lavoratori americani lavorerebbero sotto padroni cinesi: e sarebbe giusto, come nell’antichità i debitori insolventi diventavano schiavi dei creditori.


Ma la Cina stessa rischia l’implosione per «sovraccapacità produttiva», produce troppe merci e la sua popolazione, con poco potere d’acquisto, ne compra poche.
Per scongiurare la sovraccapacità, con la deflazione e i crack a catena che ne conseguirebbero, ha bisogno che gli americani dissanguati continuino a comprare le sue carabattole a milioni di tonnellate; dunque deve continuamente prestare al debitore insolvente, perché continui ad ingozzarsi; e intanto dare alla Casa Bianca i fondi per continuare le sue guerre.
I due mostri sono legati, come Moby Dick e il capitano Achab, nella stessa sorte e nella stessa apocalisse.
Il dollaro calante trascina entrambi verso il fondo: e il tutto, mentre i media bugiardi ci segnaleranno la Cina come modello da imitare, e gli USA come economia in crescita trionfale.
Per tutto questo hanno votato gli elettori americani, rifiutandosi di liquidare il partito repubblicano che li dissangua, perché la benzina era diminuita di 80 centesimi a gallone, e perché non sono capaci di liberarsi dalla lobby ebraica che li teleguida.
Il solo atto di sovranità popolare, l’hanno sprecato.
Anche l’avventura storica della democrazia è arrivata, mi pare, all’ultima fermata.

Maurizio Blondet


Note
1) Teheran, 4 Novembre (ISNA) - «Iran’s railroad organization manager and his Russian counterpart emphasized on the connection of the two countries railroads. In a session held with the presence of the Federal Russian railroad manager issues such as the joint venture transportation company, a shared train wagon repair company, launching a shared research so to equip Iran’s railways with electricity and shared investments on specific lines will be discussed», said Mohammad Saiednejad. «The Federal Russian railroad manager also while explaining about the capabilities and experiences of the railroad industry in his country, expressed his countries will to transfer all required experiences to Iran».
2) Axel Merck, «Dollar poised for a dip», Asia Times, 8 novembre 2006.
3) Jim Willie, «Spent dollar momentum», GoldenJackass.com, 7 novembre 2006. Si veda anche Susan Walker, «How 2006 is like 1968», Daily Reckoning, 7 novembre 2006.


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