23.8.06

Nasrallah capisce Clausewitz? (Dan Halutz no)
Maurizio Blondet
19/08/2006
Sheikh Hassan Nasrallah durante uno dei suoi discorsi

«Non abbiamo un programma sciita o di parte. Siamo sunniti perché sosteniamo i palestinesi.
E siamo cristiani perché ci ispiriamo a Chavez, che ci è più vicino dei leader arabi
».
Sono alcune delle abili dichiarazioni che Asian Age (1) ha raccolto nel quartiere generale Hezbollah, attribuibili direttamente a Nasrallah o ai suoi più vicini collaboratori.
«Non siamo contro Israele perché è uno Stato ebraico, ma perché è uno Stato sionista», ossia messianico.
«Storicamente, non ci sono problemi tra ebrei e musulmani».
Abile a calmare le ansie irrazionali dell'Occidente.
In questi giorni, Nasrallah e i suoi sono ben attenti a non parlare di «vittoria sciita».
Nessuna proclamata intenzione di imporre la Sharia in Libano.
Tutti i loro discorsi sono altamente politici, accuratamente depurati di ogni riferimento alla religione, e tutti puntati a sottolineare che Hezbollah ha combattuto per «l'unità del Libano».
Con richieste di collaborazione agli altri partiti libanesi, dai cristiani ai comunisti (che hanno già risposto positivamente).
«Ci sono molti che cercheranno adesso di rompere l'unità, e questo non deve essere permesso», ha detto Nasrallah nel suo primo discorso dopo il cessate il fuoco.
I militanti che hanno combattuto, oggi vengono impegnati nella ricostruzione; li si vede accanto ai soccorritori civili fra le macerie, attenti a non fare distinzioni, nei soccorsi, tra sciiti, sunniti e cristiani.
Il linguaggio che esce dal quartier generale Hezbollah non viene dal vocabolario del fondamentalismo, ma da quello del gergo ideologico della sinistra post-moderna, più precisamente alter-mondialista e anti-imperialista.


In questo senso è costante il riferimento al venezuelano Chavez: «Aspiriamo a un progetto di cooperazione tra i movimenti di resistenza del mondo, e in questo Chavez ci è più vicino dei leader arabi».
E ancora: «Consideriamo la [nostra] resistenza ad Israele l'inizio di una riscossa, e chiediamo a tutti i movimenti di resistenza di unire le nostre forze per portare la lotta all'imperialismo ad un nuovo livello».
Internazionalismo no-global.
Propaganda, è facile dire.
Ma sarebbe una sottovalutazione la novità di questa propaganda.
Nasrallah appare come un nuovo tipo di capo musulmano, mai visto prima: della generazione dei musulmani informati dalle loro TV pan-arabe e moderne, Al-Jazeera e Al-Arabia, che compulsano le notizie alternative su internet, che conoscono la situazione del mondo; capaci di distinguere in Occidente fra «crociati» (giudeo-americani) e potenziali amici; desiderosi di inserirsi nel movimento mondiale anti-imperialista: a loro agio nell'uso del linguaggio «globale» in una visione globale.
Oggi, a parlare la rozza lingua del fondamentalismo è Bush.


I capi Hezbollah sono apparsi al giornalista indiano di Asian Age «disciplinati, altamente motivati» e «understated in their views», sul modello dello stesso Nasrallah, sempre calmo, «intelligente», e mai esagitato quando appare in TV, capace di «understatement» nelle dichiarazioni, ossia di rinunciare alle vanterie e retoriche tradizionali del discorso pubblico arabo (ricordiamoci Saddam e la sua «madre di tutte le battaglie», o l'ayatollah Khomeini del «grande Satana»).
Ma c'è di più: Nasrallah sta applicando la lezione del più occidentale dei teorici della guerra: von Clausewitz.


Carl von Clausewitz

Nei 34 giorni di fuoco contro Israele
, nei momenti più duri e scoraggianti (un'armata di 30 mila uomini e corazzati contro i suoi 2500 guerriglieri) non ha mai perso di vista che «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi».
Che le armi sono solo uno strumento - come la propaganda, e l'immagine televisiva post-moderna - per ottenere uno scopo «politico».
Ben conscio che Hezbollah combattente era davanti all'inevitabile sconfitta militare - la sproporzione schiacciante delle forze - l'ha trasformata in questa strana «vittoria» cui assistiamo: sì al cessate il fuoco dell'ONU, sì alle forze d'interposizione.
Ha capito che per «vincere» bastava resistere ancora un po', sparare qualche inutile razzo in più su Israele, liquidare ancora un Merkava, pagare l'alto prezzo di cento Hezbollah uccisi per ogni israeliano, fino alla «internazionalizzazione» del conflitto.
E l'internazionalizzazione è precisamente la vittoria.


Per capirlo, basta confrontare la situazione di Hezbollah e quella dei poveri palestinesi di Gaza. Vittime da mezzo secolo delle angherie sanguinose israeliane senza fine, senza alcuna ONU che si interpone, quasi che la loro persecuzione inaudita fosse una questione interna israeliana, senza controllo e perciò senza limiti di crudeltà.
«La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi» è una frase tanto nota da essere un luogo comune nel discorso occidentale.
Quasi ci si vergogna a ripeterla.
Ma è dubbio che il nuovo «Occidente» americano-ebraico l'abbia compresa.
Il generale Dan Halutz, il capo di Stato Maggiore, certo non l'ha compreso.
Pilota «americano», confidante nella capacità risolutiva dei bombardamenti aerei, ha vantato di non provare alcun sentimento quando lasciava cadere le bombe dal suo aereo; «solo la lieve scossa» dovuta all'uscita fisica della bomba.
Dichiarazione rivelatrice: dice che Dan Halutz «sente» se stesso come una parte meccanica dell'armamento.
E crede che la guerra consista, primariamente, nell'ammazzare.


Il generale israeliano Dan Halutz


E l'intero Israele vive nella stessa follia politica, indotta dall'adorazione di Sharon e dei suoi metodi brutali: le armi non come mezzo ma come fine in sè.
Il bastone bellico sempre e comunque, in sostituzione di negoziati, trattative e intelligenza politica. Il nemico additato come «terrorista» ha questo senso: il terrorista non ha dignità politica, non è un avversario politico.
Ma con ciò, si riduce la politica a repressione di una banda criminale, l'armata a polizia.
La guerra all'assassinio.
Anzi, ancora peggio: i generali israeliani si lasciano dettare la loro strategia dalle armi.
E' l'errore fatale da cui Clausewitz metteva in guardia con quella frase-luogo comune: mai permettere che siano le armi a fare la politica, la politica deve sempre «guidare» i carri armati e i missili.
Così si spiega come mai, per le strade di Tel Aviv e di Gerusalemme, gli israeliani, disorientati e indispettiti, continuino a ripetersi e a protestare: «Non è vero che abbiamo perso! Abbiamo vinto!». (2)
E mostrano le loro armi strapotenti, mostrano i missili, le atomiche; ripetono che «ancora pochi giorni», se non fosse avvenuto il cessate-il-fuoco, avrebbero «spazzato Hezbollah dalla faccia della terra».
Non riescono a capire, o meglio non vogliono - ed è singolare come gli ebrei abbiano perso, diventando israeliani e «asiatici», la loro proverbiale sottigliezza.
Non capiscono che le armi non devono essere strapotenti: basta che siano «sufficienti».
Sufficienti a raggiungere il risultato politico.


E invece, ecco qual è il risultato politico della «vittoria» giudaica: hanno mostrato al mondo una faccia brutale di massacratori di civili e criminali di guerra.
Hanno creduto che essendo super-armati ed appoggiati dalla superpotenza militare planetaria, potessero infischiarsene del mondo, delle leggi internazionali: la definizione esatta di «rogue State», Stato-canaglia.
Oggi, Israele è visto come l'energumeno del mondo.
Non solo il mito della sua invincibilità è intaccato (sarebbe il meno); il suo isolamento politico internazionale è palese, la sua posizione morale è devastata.
La forza d'interposizione ONU va lì non a «disarmare Hezbollah» ma, sostanzialmente, a proteggere la società civile libanese dalle bastonate dell'energumeno planetario.
Nessuno disarmerà Hezbollah: e Israele se vorrà farlo, dovrà passare coi suoi cingoli sulle forze europee d'ìnterposizione.
E la società libanese è unificata, almeno per ora, dal bastone giudaico, e non divisa come sperava il bastonatore.
Nasrallah, per contrasto, appare il più ragionevole e razionale.
Parla in modo più articolato di Dan Halutz e di Olmert: il «terrorista» si fa capire, ed espone un programma «politico», nel senso migliore: la chiamata a raccolta di genti diverse a fare qualcosa insieme.
Il linguaggio progressista fa appello ad un mondo più vasto di quello islamico: è un linguaggio che capisce Chavez, che capiscono gli europei di sinistra, che capisce - laggiù nel fondo dell'Asia - la Cina.


Israele ha perso, e ha perso perché ha rinunciati ad essere occidentale.
Perché ha dimenticato Clausewitz ed ha adottato l'America - di Bush il fondamentalista, di Rumsfeld, dei cristiani rinati - quest'America che non è più Occidente.
La prova viene ancora da Dan Halutz, che è un lapsus freudiano incarnato: che cos'è la prima cosa che ha fatto il capo di Stato Maggiore, alle prime cannonate?
Ha venduto i suoi titoli, azioni e obbligazioni.
Non da stratega, ma da manager della Enron.
Prima che alla vittoria, ha pensato al profitto finanziario, o almeno a contenere le perdite di mercato.
Alla battaglia ha pensato dopo: convinto, da americano, che le armi facciano il lavoro da sé; che avendole infarcite di «chips» e rese intelligenti, non abbiano bisogno d'intelligenza politica.


Le Figaro intanto, scopre che a Damasco, i preti cristiani e quelli greco-cattolici hanno invitato i fedeli a «pregare per la resistenza e per Hassan Nasrallah, che difende la giustizia». (3)
«In Siria come in Libano, i cristiani mostrano la loro solidarietà con i profughi sciiti. Sabato, la Mercedes nera del patriarca greco-cattolico Gregorio III, seguita da quella del nunzio apostolico, è arrivata nel cortile polveroso di un monastero di Sednaya, dove ha confortato oltre 500 rifugiati dalla Bekaa, tutti o quasi sciiti».
«Il patriarca ha intonato l'inno nazionale libanese, trascinando nel canto decine di bambini rifugiati attaccati alla sua talare».
La sera i rifugiati sciiti ringraziano il patriarca alla loro maniera.
E' la festa della Trasfigurazione, ci sono scout e studenti cattolici, e la banda musicale (che non suona «in segno di lutto per il Libano»); nella processione entrano una cinquantina di rifugiati, donne col velo e uomini barbuti.
Essere cristiani ed arabi è difficile, difficilissimo.
Difficile essere lievito, fermentante e sempre a rischio di essere «purificato», l'identità araba combatte, anche nei loro cuori, con Cristo «Occidente».
Ma proprio per questo, nessuno come i cristiani spera che il messaggio di unità nazionale di Nasrallah, lo sciita post-moderno, non sia solo propaganda.
Padre Elias Zahlawi, parroco di Nostra Signora di Damasco, dice: «Nasrallah è un saggio».
Il rischio che il fondamentalismo sciita diventi qualcosa di tremendo, lo sente e lo capisce, glielo dice il sangue cristiano, che conosce secoli di sofferenza.
«Ogni potenza emergente, se non è controllata dall'intelligenza, può diventare un cancro. Ma con Nasrallah, non ho paura».


Il Patriarca Gregorio III

Forse sarà solo propaganda, vedremo.
Fino ad ora, la qualità politica di Nasrallah è abbastanza evidente da rassicurare.
L'uomo è noto per dirittura e onestà, ha perso un figlio di 18 anni nella precedente guerra con Israele, una strada di Beirut è dedicata al nome di suo figlio.
E' ritenuto privo di doppiezza.
Per il resto, padre Elias spera in qualcosa di impalpabile, mai sufficiente e sempre pericolante.
Ma concreto e forte, di quell'Oriente in cui vive.
«Vede questo orologio? Me l'ha regalato la moglie del più grande sceicco siriano, il mio miglior amico, che è morto da poco, in ricordo della nostra amicizia. E il terreno su cui sorge la mia chiesa, me l'ha venduto un musulmano a metà del prezzo, perché si trattava di costruirvi un luogo di culto».
Voi occidentali, conclude padre Elias, «non capite le realtà religiose orientali».
Essere arabo e cristiano è difficile, difficilissimo.
Ma Nasrallah conosce Clausewitz meglio degli israeliani, dopotutto.
E' l'islamico post-moderno.

Maurizio Blondet


Note
1) «Hezbollah: we don't have Shia agenda», Asian Age, 16 agosto 2006.
2) Bernard Guetta, «Nelle strade di Gerusalemme: 'Abbiamo perso!?'», La Repubblica, 18 agosto 2006. Gli israeliani hanno «vinto», ma mettono sotto accusa Olmert e i generali: non è un sintomo di vittoria.
3) Pierre Prier, «Les chrètiens de Syrie applaudissent les Hezbollah», Figaro, 7 agosto 2006.

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